Un miniassaggio di «Giorni selvaggi»
Prosegue il nostro countdown per l’uscita del Premio Pulitzer. Pubblichiamo un miniassaggio di Giorni Selvaggi di William Finnegan nella versione inglese e nella traduzione italiana di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini. Il volume completo sarà disponibile nelle librerie italiane dal 30 giugno. Buona lettura!
And so, on a spring Sunday morning, I found myself slowly paddling back from Cliffs through the lagoon while my family sweated it out up at Star of the Sea in Waialae. The tide was low. My skeg gently bumped on the bigger rocks. Out on the mossy, exposed reef, wearing conical straw hats, Chinese ladies, or maybe they were Filipinas, bent, collecting eels and octopus in buckets. Waves broke here and there along the reef’s outer edge, too small to surf.
I felt myself floating between two worlds. There was the ocean, effectively infinite, falling away forever to the horizon. This morning it was placid, its grip on me loose and languorous. But I was lashed to its moods now. The attachment felt limitless, irresistible. I no longer thought of waves being carved in celestial workshops. I was getting more hardheaded. Now I knew they originated in distant storms, which moved, as it were, upon the face of the deep. But my utter absorption in surfing had no rational content. It simply compelled me; there was a deep mine of beauty and wonder in it. Beyond that, I could not have explained why I did it. I knew vaguely that it filled a psychic cavity of some kind—connected, perhaps, with leaving the church, or with, more likely, the slow drift away from my family—and that it had replaced many things that came before it. I was a sunburnt pagan now. I felt privy to mysteries.
E così, una domenica mattina di primavera, mi trovai a remare attraverso la laguna per tornare a casa dai Cliff, mentre la mia famiglia si sorbiva la funzione alla parrocchia Stella del Mare di Waialae. C’era bassa marea. La pinnetta della tavola urtava lievemente sulle rocce più grandi. Sopra la parte affiorante della barriera corallina, ricoperta di muschio, alcune signore cinesi o forse filippine, con indosso un cappello conico di paglia, erano chine per riempire i secchi di anguille e piovre. Le onde si frangevano qua e là lungo il margine esterno della barriera corallina, troppo piccole per fare surf.
Mi sentivo galleggiare, sospeso tra due mondi. C’era l’oceano, davvero infinito, che spariva per sempre all’orizzonte. Quella mattina era placido, ed esercitava su di me un fascino dolce e languido. Ma adesso ero legato in maniera indissolubile ai suoi sbalzi d’umore. La mia devozione era assoluta e irresistibile. Non pensavo più che le onde fossero intarsiate in qualche officina celeste. Stavo diventando più pragmatico. Adesso sapevo che traevano origine da mareggiate lontane che si muovevano, per così dire, sulla superficie dell’abisso. Ma la mia totale dipendenza dal surf non aveva una motivazione razionale. Non ero in grado di opporvi alcuna resistenza: era una miniera senza fondo di bellezza e meraviglie. Non avrei saputo spiegarlo in altre parole. In linea generale, sapevo che riempiva una specie di vuoto psichico – collegato magari al mio rifiuto della Chiesa o, più probabilmente, al mio ineluttabile distacco dalla famiglia –, e che aveva rimpiazzato molti interessi precedenti. Ero un pagano riarso dal sole. Ero stato iniziato ai misteri della vita.
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