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«Blues del Mar Nero» un estratto dell’inedito di William Finnegan a #Letterature16

Pubblichiamo un estratto del testo inedito che William Finnegan ha letto al pubblico del festival Letterature di Roma, il 5 luglio scorso nella serata Memorabilia a cui hanno partecipato anche i finalisti del premio Strega Europeo: Mircea Cărtărescu, Annie Ernaux, Kerry Hudson, Ralf Rothman e Ricardo Menéndez Salmón.

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William Finnegan
Blues del Mar Nero

Avrei potuto essere il primo uomo a fare surf sul Mar Nero. Ero sceso da un autobus in un paese sulla costa nord della Turchia, ed eccolo lì: marrone e nebbioso, appena increspato da qualche ondina modesta, senza forma, che arrivava grossomodo dalla direzione di Odessa. Era il 1970. E io ero un giovane surfista hippie della California connesso con la rete mondiale del surf underground (se non altro), perciò ero abbastanza sicuro che nessuno avesse mai preso un’onda sul Mare Nero. Non avevo una tavola, ma pensavo di poterne rimediare una. La spiaggia era deserta, ma in lontananza vidi un paio di café decrepiti affacciati sulla sabbia. Era probabile che uno di loro avesse una vecchia tavola da Sup poggiata da qualche parte. L’acqua mi avrebbe fatto sentire bene. Avrei potuto avere qualcosa di bello di cui vantarmi. Invece mi girai e cominciai ad arrancare verso l’entroterra, scavalcando dune bollenti e piene di arbusti, arrivai in un punto lontano da tutto e da tutti e mi lasciai andare a una piccola crisi di nervi.
Il mio problema, Dottore, era la libertà. Avevo diciassette anni, e avevo approfittato di una certa distrazione dell’autorità culturale per dichiararmi uno Stato sovrano. Quell’estate, la mia ragazza e io vagabondavamo per l’Europa occidentale, vivevamo di cracker e aria fresca, dormendo sotto le stelle. C., anche lei californiana, diciassette anni, ma meno naïf di me, si era stancata del ritmo inumano a cui la costringevo – gli estenuanti pellegrinaggi ai festival rock (Bath), alle località famose per il surf (Biarritz), ai vecchi luoghi (e alle tombe) dei miei scrittori preferiti –, e alla fine aveva deciso di piantare le tende sull’isola greca di Corfù, dopo che le avevo annunciato il mio desiderio di saperne di più sull’«influenza turca». Potevo andare a cercare minareti ottomani per conto mio, mi disse. Così la mollai lì, in una spiaggia remota sovrastata da un monte, dove stavamo facendo campeggio libero. Immagino che né lei né io credessimo che l’avrei fatto sul serio, ma ormai ero diventato bravo, se non altro, a spostarmi rapidamente e a costo zero in territori stranieri, così una settimana dopo ero davvero in Turchia, a progettare di raggiungere via terra l’India. Muoversi, conoscere nuovi amici, vedere nuovi paesi erano le mie droghe di allora – trovavo che facessero miracoli per i nervi di un adolescente confuso. L’influenza turca mi aveva affascinato per circa mezz’ora. Ora toccava all’influenza tamil.
Ma qualcosa che aveva a che fare con quella spiaggia sul Mar Nero mandò all’aria i miei piani. Il vuoto, il silenzio, la vista familiare ma inaspettata delle onde, quell’impresa bizzarra e invitante. Avevo davvero lasciato la mia ragazza in un posto sperduto della Grecia? La sensibile, spiritosa e attraente C., di cui la madre, appena capì che saremmo saliti davvero su quel charter scassato per Londra, mi aveva intimato di prendermi cura? Mi guardai indietro e mi sentii come Orfeo che vede Euridice risucchiata nell’Ade, a parte il fatto che io non avevo cercato di salvarla; l’avevo solo abbandonata lungo il tragitto. Mi era sembrato che la mia brama di posti nuovi, di nuove avventure, venisse prima di tutto. Non era così. O almeno, la mia sicurezza si dissolse in una sbuffata amara, mentre ero lì seduto nella boscaglia turca e i cani cominciavano ad abbaiare, scendeva la notte e io iniziavo a vedermi non più come l’intrepido protagonista del mio scintillante road movie personale, ma come un coglione sfortunato: come un fidanzato da quattro soldi, un fuggitivo troppo cresciuto, un ragazzino spaventato che aveva bisogno di una doccia. Molto, molto lontano da casa.

(continua…)

© William Finnegan, 2016

Traduzione italiana di Michele Martino
© 66thand2nd, 2016

 

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