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Un saluto a David Storey

Lo scorso 27 marzo è morto David Malcolm Storey, romanziere, poeta e drammaturgo inglese, autore del romanzo Il campione, che il «Guardian» ha definito – a cinquant’anni dalla sua pubblicazione – «il più bel romanzo mai scritto sullo sport». Ancora il «Guardian», qualche giorno fa, in occasione della sua scomparsa, ha dedicato all’autore un bel profilo che vi invitiamo a leggere.

Storey aveva ottantatré anni. Era nato a Wakefield, nel West Yorkshire, nel 1933, figlio di un minatore e di una casalinga. Si trasferì a Londra per studiare pittura, mantenendosi come giocatore professionista di rugby. Alla fine degli anni Cinquanta, con l’abbandono della carriera agonistica e il matrimonio con Barbara Rudd Hamilton, da cui avrà quattro figli, decise di diventare uno scrittore, una strada che per la verità lo tentava fin dai tempi della scuola. Durante una lezione di francese – ha raccontato un avolta – mentre l’insegnante leggeva una poesia di Verlaine, ha avuto una visione: «Stavamo tutti su una linea ferroviaria, e saremmo diventati tutti insegnanti; potevo vedere il matrimonio, la casa, la macchina, lo stipendio, la pensione… e proprio alla fine del binario c’era questa parola, Morte. È arrivata in un batter d’occhio, ed è stata incredibilmente nitida. Allora ho soltanto deciso che avrei fatto della mia vita qualcosa di totalmente diverso da quello che tutti si aspettavano da me».

Per un periodo David lavorò come supplente nelle scuole, mentre sei manoscritti e un primo lavoro drammaturgico furono rifiutati dalle case editrici e dai teatri londinesi. Ma nel 1960, a ventisei anni, pubblicò il suo primo romanzo, This Sporting Life (Il campione), raccontando la parabola umana e sportiva di un giovane operaio che tenta di sfondare giocando a rugby, e allaccia una sfortunata storia d’amore con la vedova che lo ospita. Il libro fu subito accostato alla «new wave» del realismo inglese postbellico, ai «giovani arrabbiati», a scrittori come Alan Sillitoe, John Braine e John Osborne, e ottenne un’immediata popolarità: l’anno successivo vinse il prestigioso MacMillan Fiction Award, mentre nel 1963 fu portato sullo schermo da Lindsay Anderson, che realizzò all’esordio uno dei momenti più alti del Free Cinema britannico (non a caso, il British Film Institute ha incluso il film, restaurato e presentato al Festival del cinema di Torino 2009, tra le cento migliori opere inglesi del Ventesimo secolo).

Sull’onda del successo, Storey scrive un secondo romanzo, che esce a pochi mesi di distanza dal primo, Flight to Camden (Fuga a Camden), seguito tre anni dopo da una delle sue opere più controverse, accostata dalla critica a D.H. Lawrence e a Dostoevskij: Radcliffe, un «romanzo dall’atmosfera gotica» che racconta la tragica attrazione omosessuale tra un debole aristocratico (il Radcliffe del titolo) e un operaio «dalla personalità magnetica e distruttiva». Con Radcliffe si chiude la prima fase della produzione narrativa di Storey, che avvia un lungo sodalizio con Lindsay Anderson, cominciato con la sceneggiatura per il film Il campione, scritta a quattro mani (con la collaborazione non accreditata di Doris Lessing), e proseguito sui palcoscenici londinesi. Tra il 1967 e il 1975 Anderson mette in scena nove lavori teatrali di Storey, che si merita in questo periodo l’appellativo di «Čechov del Nord», coniato dallo storico del teatro John Russel Taylor. Tra i maggiori successi di questo periodo In Celebration, The Contractor, The Changing Room, un dramma realistico che si svolge nello spogliatoio di una squadra di rugby, e soprattutto Home, ambientato in un istituto psichiatrico, con indimenticabili interpretazioni di John Gielgud e Ralph Richardson, adattato in francese da Marguerite Duras, che avrebbe voluto farne anche un film.

Storey torna alla narrativa con A Temporary Life (1973), e poi con Saville (1976), vincitore del Booker Prize, un altro romanzo che attinge alla biografia dell’autore, una saga familiare ambientata in una cittadina mineraria dello Yorkshire, che racconta la vicenda di Colin Saville: dall’adolescenza, segnata dalla Grande Depressione e dalla guerra, alla giovinezza, fino al nascere delle sue ambizioni artistiche (nell’Inghilterra degli anni Cinquanta) che lo inducono a partire per Londra. Altri due romanzi escono nei primi anni Ottanta, A Prodigal Child (1982) e Present Times (1984), prima di un lungo periodo di silenzio, durato quattordici anni e interrotto con la pubblicazione di A Serious Man (1998), un memoir camuffato che racconta di uno scrittore sessantenne afflitto da stati depressivi e assegnato alle cure della figlia, un uomo che in passato è stato illuminato da una poesia di Verlaine che l’ha spinto a perseguire con ostinazione una carriera di artista.

Il campione, il suo capolavoro, uscì nel 1962 per Feltrinelli, e fu ripubblicato nel 1966 da Garzanti. 66thand2nd lo ha riproposto nella sua collana Attese, dedicata alla letteratura sportiva, nel 2010, a mezzo secolo dalla prima edizione inglese giustamente celebrata dal «Guardian». Arthur Machin, il protagonista, è il primo di una lunga serie di creazioni letterarie dai tratti comuni: un personaggio emblematico della produzione di Storey. Arthur non è un iconoclasta o un contestatore consapevole, dotato di una coscienza sociopolitica: è piuttosto un «ribelle senza causa», un disadattato la «cui perdita d’identità» deriva – come ha scritto Paola Splendore – «dalla rescissione dei vincoli di classe e dallo sradicamento dalla cultura d’origine e dal proprio sistema di valori». Fin dal suo romanzo d’esordio Storey era un maestro nel costruire situazioni drammatiche senza via d’uscita, in cui crescono ed esplodono le tensioni sociali, psicologiche ed emotive dei suoi personaggi – insomma, le caratteristiche che gli avrebbero fatto guadagnare, più tardi, l’appellativo azzeccato di «Čechov del Nord».

 

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