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L’importante è non vincere

Ripubblichiamo un articolo di Filippo D’Angelo uscito originariamente su Le parole e le cose, per la rubrica Gesti sportivi, in cui diversi scrittori raccontano il gesto di un atleta che li ha colpiti.
Filippo D’Angelo è l’autore di La fine dell’altro mondo (minimum fax, 2012) e Troppe Puttante! Troppo canottaggio! (minimum fax, 2014), e il traduttore di Peperoncino di Alain Mabanckou.

 

È necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create
(in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito),
in modo da non desiderare, per parte nostra, la salute piuttosto che la malattia,
la ricchezza piuttosto che la povertà, l’onore piuttosto che il disonore,
una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto.
Ignazio di LoyolaEsercizi spirituali

 

Fra le molte, mai troppe partite viste allo stadio seguendo il Genoa, quella che mi è rimasta più impressa è uno squallido pareggio del campionato 1982-1983, consumato contro il Torino al Luigi Ferraris, nel mese di gennaio, quando nel capoluogo ligure spira un vento freddo e umido che ingracilisce le ossa.

Genova era una città di quasi ottocentomila abitanti (oggi ne ha meno di seicentomila). L’industria pesante dava segni di cedimento, ma l’Italsider e l’Italimpianti non erano ancora state svendute ai privati; il porto restava paralizzato dal monopolio della Compagnia Unica; le Brigate Rosse continuavano a terrorizzare esponenti marginali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. Lo stadio della città poteva contenere sino a sessantamila spettatori (oggi, poco più di trentamila), senza contare quelli appostati sui balconi delle palazzine svettanti a est del terreno di gioco, fra i quali, immancabile ospite di amici, Padre R., il prete “buliccio” dell’Istituto Arecco, la scuola di gesuiti che allora frequentavo, uomo di genuina bontà, promotore e arbitro del campionato calcistico tra classi, la cui sola debolezza era verificare con mano, negli spogliatoi, che i bambini avessero bene infilato la maglietta nei calzoncini, scatenando una ridda di lazzi e risatine.

Insomma, il 30 gennaio del 1983, andava tutto bene, o quasi. Genova era una città moderna, aspra e conflittuale, piena di tossici, travet, chierici, puttane, imprenditori, commercianti, operai, travestiti, avvocati, terroristi, mamme, bambini e maniaci sessuali. Una città, a suo modo, straripante di vita. Nel giro di pochi anni finì tutto in malora: i tossici e i chierici morirono, i commercianti e le puttane chiusero bottega, gli operai e i travet vennero licenziati, gli imprenditori fallirono, i terroristi e gli avvocati persero la loro causa, le mamme e i maniaci sessuali smisero di fare o di farsi i bambini.

Continua a leggere su Le parole le cose.

 

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