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Il taglio di Anthony Cartwright. Un estratto

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A pochi giorni dal referendum sulla Brexit, Cairo Jukes, operaio ed ex pugile dilettante, e Grace Trevithick, giovane film-maker di Londra, si conoscono e si innamorano a Dudley, nel Black Country, dove la donna si è trasferita per catturare in un documentario l’umore dell’elettorato.

Il taglio di Anthony Cartwright è un «viaggio rude e tagliente nella pancia del neopopulismo» come scrive Andrea Malaguti su TuttolibriPubblichiamo qui un estratto del libro, tradotto da Riccardo Duranti. Buona lettura!

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E il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta il tempo era lo stesso: all’inizio pioggia, poi sereno, con nuvole alte che si spostavano veloci col vento, un’aria fresca, che s’intiepidiva abbastanza al sole. Lei l’aveva incontrato in quella luce cangiante: sorridente, a testa alta, vestito da lavoro, coperto da una patina di polvere. Più tardi le aveva detto che quelle nuvole le chiamavano «i ragazzi» del Severn, per come risalivano il fiume, ma lei non aveva mai trovato conferma di questa cosa, aveva chiesto a un paio di persone anziane che avevano reagito con aria smarrita, come a tante altre domande che aveva fatto lei; dopotutto, il fiume era distante parecchie miglia. E lei si era rimproverata di non aver fatto le domande giuste, di aver usato solo la sua voce, non la loro.
«Stai zitta, ascolta, lascia parlare la gente» era l’unico consiglio che le aveva dato la madre per le interviste o forse per la vita in genere. «Più facile a dirsi che a farsi» aggiungeva poi sempre. Anche sua madre aveva qualche dubbio sul lasciar dire alla gente certe cose alla radio di cui magari dopo si sarebbe pentita, anche se aveva basato la carriera proprio su questo. Quando Grace più tardi stava ripensando al fiume, alle nubi, si chiese cos’altro si fosse inventato Cairo, che parte avesse la sua fantasia nel movimentare e colorare le cose che diceva, proprio come faceva il cielo. Che lui appartenesse a una città, a un intero paese, dal pensiero magico e cangiante, è un’idea che le era venuta in mente molto più tardi.
Quella prima mattina credeva ancora nelle domande e nelle risposte.
Aveva cominciato di buon’ora a tentare di intervistare gente quasi ai piedi di High Street, ma nessuno voleva parlarle; si scansavano appena lei si avvicinava, quasi temessero che lei facesse domande a cui non sarebbero stati in grado di rispondere. In quel posto Grace si sentiva un po’ alla mercé degli elementi, anche se aveva scelto un punto al sole, di fronte ai tendoni colorati delle bancarelle del mercato e alla statua del calciatore gigante che si apprestava a calciare il pallone giù per la collina; i passanti la sfioravano e proseguivano. Un uomo con una giacca di lana sopra un’ampia tunica da moschea le aveva fatto un cenno guardandola, ma poi si era voltato, con una borsa a fiori in ciascuna mano, come per mantenersi in equilibrio. Una signora con orecchini a cerchio e rossetto vivace, vestita in tuta da ginnastica, sulla settantina, «mica un giorno», per usare una frase che suo padre avrebbe usato un tempo, aveva di sicuro voglia di parlare con lei, Grace se lo sentiva, e infatti stava già per attaccare discorso quando la donna l’aveva fermata alzando una mano robusta e dicendo: «Non è che mi stai cercando di vendere qualcosa, eh?».

«No, voglio solo farle una domanda».
«Dicono tutti così» aveva detto e aveva proseguito, ancheggiando verso la stazione degli autobus.
C’erano ragazze magrissime che fumavano spingendo carrozzine coperte e strizzavano gli occhi attraverso il fumo per guardarla. Aveva la sensazione ci fosse un velo invisibile che le separava da quella gente. Quella gente. Immaginava fosse cominciato così, il pregiudizio su scala di un intero paese. Era il motivo per cui era venuta qui, per raccontare qualcosa sull’argomento. Con le ragazze non ci aveva neanche provato ad attaccare discorso.
Poi, da dietro un angolo, erano apparsi loro. Da principio non aveva notato Cairo, cioè non aveva distinto nessuno in quel gruppetto di uomini, sette o otto, che però in qualche modo sembravano di più, riempivano la strada, camminavano, allegri e chiassosi, risalendo la strada verso di lei; la gente si voltava a guardarli. Li aveva visti come un tutt’uno ondeggiante e spavaldo. Era stata colpita dalle condizioni pietose dei loro abiti da lavoro, sporchi e logori, che sembravano provenire da un’incisione di squallore vittoriano, tranne per i vivaci colori da squadre di calcio, le tute macchiate di tinta e i cellulari incollati all’orecchio.
I più giovani – alcuni poco più che ragazzini, secondo lei – si erano messi a fare gli scemi davanti alla macchina da presa. Grace non ricorda neanche di essergli andata incontro, erano loro che si erano avvicinati a lei. Quelli più grandi si erano tenuti a distanza e Cairo era uno di loro, lo aveva notato solo a quel punto, mentre i ragazzi continuavano a fare casino. Gli aveva rivolto una domanda sul referendum, se avrebbero votato.
«’fanculo il referendum» aveva detto uno dei più giovani che ora si stringevano attorno a lei; era l’unico che non indossava abiti da lavoro. Era in sella a una bici tenuta di sghembo, aveva in testa un berretto, sghembo anche quello, e mordicchiava una cannuccia di plastica. Aveva ag- giunto qualcosa che lei non aveva capito, rivolto agli altri ragazzi che erano scoppiati a ridere e l’avevano guardata. D’un tratto lei aveva avvertito un senso di minaccia. Ma poi, quando aveva rivisto il filmato, la cosa era sembrata molto più innocente, le aveva ricordato i vecchi gruppi pop che facevano gli spiritosi davanti alla macchina da presa, come i primi video fatti in casa dai Beatles. O addirittura, per quanto riguarda gli uomini più grandi che erano rimasti in disparte, somigliavano a quelli che avevano ripreso una volta a Pristina, ex soldati che pensavano di non avere niente da dimostrare a nessuno, men che meno a una troupe di documentaristi inglesi.

 

 

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