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Fc United of Manchester

Il modo migliore per prepararsi all’uscita di Voglio la testa di Ryan Giggs, il romanzo di Rodge Glass nelle librerie a fine marzo, è leggere il bellissimo articolo di Antonello Guerrera, Manchester Social Club, pubblicato ieri sulla Domenica di «Repubblica». Un reportage che parla di calcio come piace alla collana Attese di 66thand2nd, servendosene cioè come lente di ingrandimento per esplorare la storia e l’identità dei popoli. Come ha fatto Giovanni Orelli in Il sogno di Walacek o Anthony Cartwright in Heartland, e come faranno nei prossimi mesi proprio Rodge Glass, che presenterà il suo romanzo in anteprima a Roma, il 15 marzo, in occasione di Libri come, o Lorenzo Iervolino con Un giorno triste così felice, dedicato alla figura di Sócrates e all’esperienza della Democrazia corinthiana, o un gigante del romanzo sudamericano finora inedito in Italia, Roberto «el Negro» Fontanarrosa, autore di El Area 18 (in libreria a ottobre).

I don't have to sell my soul

I don’t have to sell my soul

Nel suo articolo, Guerrera traccia un appassionato ritratto dell’Fc United of Manchester, la terza squadra mancuniana che, a differenza delle corazzate dello United e del City, lotta nel calcio semiprofessionistico (in settima divisione) e appartiene «al popolo», ai suoi tifosi, che hanno rifondato il club per «sopravvivere al calcio moderno», «in nome della democrazia, della solidarietà e contro ogni razzismo o discriminazione, come si legge nel manifesto di fondazione e sugli striscioni». Il calcio vissuto nella sua accezione più popolare, quindi, in totale antitesi rispetto alle logiche affaristiche che hanno portato lo United nelle mani della famiglia americana dei Glazer e il City in quelle degli sceicchi degli Emirati Arabi.
A leggere il racconto di Guerrera sembra quasi di sentire il protagonista di Voglio la testa di Ryan Giggs, lo sfortunato Mikey Wilson, litigare con il fratello Danny, colpevole ai suoi occhi di aver tradito la causa dello United per abbracciare quella di una squadretta di sfigati di provincia, quegli «undici brocchi dello Stockport County», proprio perché disgustato dalla piega assunta dal calcio moderno:

«Mickey, non ne posso più di quel parco giochi da miliardari» disse. «Preferisco dare il mio stipendio a dei mezzi talenti appassionati che se la giocano su un campetto di merda piuttosto che andare avanti con queste grandi squadre, spocchiose e prevedibili. I loro giocatori sono come puttane, fratello. Capisci cosa intendo?».

In realtà Mikey, ancora obnubilato dalla passione per i colori della sua squadra, non riesce capire «cosa intendesse suo fratello. Cominciava a pensare che avesse qualcosa che non andava». Eppure anche Mikey ogni tanto è roso dai dubbi. Ne vale ancora la pena? Vale ancora la pena spendere tempo, soldi ed energie per seguire una squadra composta da mercenari che provengono dai quattro angoli del mondo e che non hanno la minima idea di cosa voglia dire vestire una maglia piuttosto che un’altra?

C’era chi diceva che ormai le squadre erano tutte uguali. Che si trattava solo di soldi. Che la passione aveva abbandonato il calcio – troppi milionari, troppi bambini sperduti da posti lontanissimi che saltavano da una squadra all’altra ogni volta che si apriva il mercato, che cercavano di imparare l’inglese e di abituarsi al freddo. Ormai era soltanto un business, una tratta degli schiavi da milioni di sterline, uno spettacolo di varietà che non chiudeva mai, ventiquattr’ore su ventiquattro, messo in scena dagli uomini in completo grigio –, Peter, il nonno di Mike, non l’avrebbe riconosciuto. Alcuni dicevano che le squadre come lo United non erano più quelle di una volta. Soprattutto da quando all’Old Trafford erano arrivati gli americani a succhiare i profitti e a trasformare i ricavi in perdite. I Glazer, la nuova famiglia reale dello United, i cattivi della pantomima, tutti franchising di qua e mercati asiatici cruciali di là, quando davanti ai giornalisti cercavano di sforzarsi di non pronunciare la parola soccer. Da un lato caricavano la squadra di debiti e dall’altro spillavano soldi per sé, facendo finta di avere a cuore la causa. Secondo alcuni questo rendeva lo United simile al Liverpool, al Chelsea e a tutte le altre squadre. Ne faceva soltanto un’azienda.

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