William Finnegan è nato nel 1952 a New York, dove vive oggi con la moglie e la figlia. Cresciuto tra Los Angeles e le Hawaii, si è diplomato presso la William Howard Taft High School di Woodland Hills, in California, e nel 1974 si è laureato in Lettere alla University of California di Santa Cruz. Negli anni successivi si è specializzato in scrittura creativa presso la University of Montana, coltivando nel frattempo la passione per il surf, e viaggiando molto tra l’Asia, l’Africa e l’Australia.
Dopo aver lavorato come giornalista freelance, e aver svolto tanti altri mestieri occasionali in giro per il mondo, ha insegnato inglese per un anno alla Grassy Park High School, a Città del Capo, in Sudafrica. L’esperienza come insegnante «bianco» in un paese ancora segnato dall’apartheid gli ha offerto lo spunto per scrivere Crossing the Line: A Year in the Land of Apartheid, uscito nel 1986 e segnalato dalla «New York Times Book Review» come uno dei dieci migliori libri saggistici dell’anno.
Finnegan scrive dal 1987 per il «New Yorker», per il quale si è occupato soprattutto di politica interna ed estera, di guerra, povertà, razzismo, crimine organizzato, globalizzazione – e surf (a partire dal celebre profilo di Mark «Doc» Renneker apparso nel 1992 (leggi qui la parte 1 e la parte 2 di Playing Doc’s Game, che costituisce il primo nucleo di Giorni selvaggi).
Autore di cinque libri, Finnegan ha ottenuto tra gli altri il John Bartlow Martin Award presso la Medill School of Journalism della Northwestern University (due volte: nel 1994 e nel 1996). Nel 1999 è stato finalista all’Helen Bernstein Book Award for Excellence in Journalism, a cura della New York Public Library, mentre nel 2002 ha ricevuto il James Aronson Award for Social Justice Journalism con l’articolo Leasing the Rain. Nel 2016, infine, ha vinto il premio Pulitzer per il miglior memoir grazie a Giorni selvaggi, pubblicato da 66thand2nd nella collana Vite inattese. Il libro si è aggiudicato anche il William Hill Sports Book of the Year.
Qui sotto riproponiamo l’inedito che Finnegan ha letto nel giugno 2016 al festival Letterature, a Roma, nel corso del tour promozionale per l’uscita del libro.
Blues del Mar Nero
Avrei potuto essere il primo uomo a fare surf sul Mar Nero. Ero sceso da un autobus in un paese sulla costa nord della Turchia, ed eccolo lì: marrone e nebbioso, appena increspato da qualche ondina modesta, senza forma, che arrivava grossomodo dalla direzione di Odessa. Era il 1970. E io ero un giovane surfista hippie della California connesso con la rete mondiale del surf underground (se non altro), perciò ero abbastanza sicuro che nessuno avesse mai preso un’onda sul Mare Nero. Non avevo una tavola, ma pensavo di poterne rimediare una. La spiaggia era deserta, ma in lontananza vidi un paio di café decrepiti affacciati sulla sabbia. Era probabile che uno di loro avesse una vecchia tavola da Sup poggiata da qualche parte. L’acqua mi avrebbe fatto sentire bene. Avrei potuto avere qualcosa di bello di cui vantarmi. Invece mi girai e cominciai ad arrancare verso l’entroterra, scavalcando dune bollenti e piene di arbusti, arrivai in un punto lontano da tutto e da tutti e mi lasciai andare a una piccola crisi di nervi.
Il mio problema, Dottore, era la libertà. Avevo diciassette anni, e avevo approfittato di una certa distrazione dell’autorità culturale per dichiararmi uno Stato sovrano. Quell’estate, la mia ragazza e io vagabondavamo per l’Europa occidentale, vivevamo di cracker e aria fresca, dormendo sotto le stelle. C., anche lei californiana, diciassette anni, ma meno naïf di me, si era stancata del ritmo inumano a cui la costringevo – gli estenuanti pellegrinaggi ai festival rock (Bath), alle località famose per il surf (Biarritz), ai vecchi luoghi (e alle tombe) dei miei scrittori preferiti –, e alla fine aveva deciso di piantare le tende sull’isola greca di Corfù, dopo che le avevo annunciato il mio desiderio di saperne di più sull’«influenza turca». Potevo andare a cercare minareti ottomani per conto mio, mi disse. Così la mollai lì, in una spiaggia remota sovrastata da un monte, dove stavamo facendo campeggio libero. Immagino che né lei né io credessimo che l’avrei fatto sul serio, ma ormai ero diventato bravo, se non altro, a spostarmi rapidamente e a costo zero in territori stranieri, coì una settimana dopo ero davvero in Turchia, a progettare di raggiungere via terra l’India. Muoversi, conoscere nuovi amici, vedere nuovi paesi erano le mie droghe di allora – trovavo che facessero miracoli per i nervi di un adolescente confuso. L’influenza turca mi aveva affascinato per circa mezz’ora. Ora toccava all’influenza tamil.
Ma qualcosa che aveva a che fare con quella spiaggia sul Mar Nero mandò all’aria i miei piani. Il vuoto, il silenzio, la vista familiare ma inaspettata delle onde, quell’impresa bizzarra e invitante. Avevo davvero lasciato la mia ragazza in un posto sperduto della Grecia? La sensibile, spiritosa e attraente C., di cui la madre, appena capì che saremmo saliti davvero su quel charter scassato per Londra, mi aveva intimato di prendermi cura? Mi guardai indietro e mi sentii come Orfeo che vede Euridice risucchiata nell’Ade, a parte il fatto che io non avevo cercato di salvarla; l’avevo solo abbandonata lungo il tragitto. Mi era sembrato che la mia brama di posti nuovi, di nuove avventure, venisse prima di tutto. Non era così. O almeno, la mia sicurezza si dissolse in una sbuffata amara, mentre ero lì seduto nella boscaglia turca e i cani cominciavano ad abbaiare, scendeva la notte e io iniziavo a vedermi non più come l’intrepido protagonista del mio scintillante road movie personale, ma come un coglione sfortunato: come un fidanzato da quattro soldi, un fuggitivo troppo cresciuto, un ragazzino spaventato che aveva bisogno di una doccia. Molto, molto lontano da casa.
La mattina dopo partii per tornare in Europa. Fui preso a bordo da un gentile giornalista di Ankara, in viaggio con la sua famiglia, che mi diede un passaggio fino a un resort sul mar di Marmara. Mi offrirono da mangiare, mi lavarono i vestiti e mi studiarono con una certa meraviglia. Per loro ero il pioniere di una nuova, selvaggia tribù dell’Ovest – bambini che avevano d’un tratto ottenuto permessi senza precedenti. Per me la domanda stava diventando: Permesso di fare cosa? Per ringraziarli scrissi un biglietto nel cuore della notte, e me ne andai senza salutare.
Rientrare in Europa si rivelò più difficile di quanto fosse stato uscirne. C’era l’allarme colera, e le frontiere con la Grecia e la Bulgaria erano chiuse. Girovagai per Istanbul, passeggiando lungo il Bosforo, dormendo sui tetti. Provai a entrare in Romania. Ma le guardie di Ceaușescu mi bollarono come un parassita decadente e mi rifiutarono il visto. Poi la polizia fece irruzione nella stamberga dove dormivo. Arrestarono tre britannici, che il giorno dopo furono condannati a diversi anni di prigione per possesso di hashish. Mi spostai su un altro tetto. Scrivevo cartoline impavide, per vantarmi: Ehi, nessuna foto potrebbe rendere giustizia alla bellezza della Moschea Blu.
Eppure ero in ansia per C. Anche se lei aveva detto che avrebbe trovato il modo di andare in Germania, dove c’erano alcuni nostri amici, continuavo a immaginarmi il peggio. Le comprai una borsetta a buon mercato al Grand Bazaar. Feci amicizia con altri occidentali che si erano arenati lì come me. Alla fine cedetti e chiamai casa. Prima di riuscirci passò un giorno intero, trascorso ad aspettare negli ampi locali di un vecchio ufficio postale: uno straniero indolente e trasandato, con i capelli di una lunghezza eretica, accovacciato come un mendicante nell’ombra, un’offesa per gli occhi dei commessi indaffarati e dei titolari dei negozi alle prese con le commissioni di un qualsiasi giorno di lavoro. E la linea era pessima. La voce di mia madre sembrava terribilmente fragile, come se fosse invecchiata di cinquant’anni. Continuavo a domandarle se ci fosse qualche problema. Le dissi che ero a Istanbul, ma ancora non le avevo chiesto notizie di C. – né ad accennare al fatto che non la vedessi da settimane – quando la linea all’improvviso si interruppe.
Alla fine riuscii a corrompere alcune guardie di confine, attraversai i Balcani e le Alpi, e trovai C. in un campeggio vicino Monaco. Stava bene. Un po’ sulle sue. Sì, dissi, ho visto tutta l’influenza turca che volevo. Lei accettò la borsetta. E riprendemmo il nostro viaggio: Svizzera, la Foresta Nera, Parigi. A Amsterdam, sentimmo che Jimi Hendrix avrebbe suonato a Rotterdam. Decidemmo di andarci. Ma tutt’a un tratto Hendrix era morto. Un paio di settimane prima di Janis Joplin. (A Jim Morrison sarebbe toccato in luglio). A poco a poco, stava diventando chiaro che non tutti sarebbero usciti vivi dalla casa degli specchi.
C. io tornammo a casa. Iniziai il college. L’ambiente mi piaceva – il primo anno. Poi mollai tutto e andai alle Hawaii a vivere in una macchina e a fare surf. C., per quanto dubbiosa, decise di venire con me. Io lavoravo in una libreria, lei vendeva gelati. Resistette lì a lungo, davvero. Poi basta.
In seguito sono diventato un corrispondente dall’estero. A volte, però, mi sembra ancora di essere a Istanbul nel 1970. La mia dipendenza, mai superata, da tutto ciò che è remoto mi spinge verso orizzonti lontani, in profondi e bizzarri rapimenti intellettuali per l’insolito e l’ignoto, e poi sull’orlo del diciannovesimo collasso nervoso, dopodiché mi affretto a tornare subito a casa. Nel frattempo, tuttavia, ho costretto quelli di cui dovrei prendermi cura a cavarsela da soli. Il mio problema con la libertà persiste, Dottore. Ma – ci ha fatto caso? – adesso tutti fanno surf. È probabile che mentre noi siamo qui a parlare qualche parassita decadente stia facendo un elegante cutback su un’ondina increspata dal vento dalle parti di Odessa.
© William Finnegan, 2016
Traduzione di Michele Martino
© 66thand2nd, 2016