Anatomia di un fallimento
In Un gioco da grandi, il suo sesto romanzo, Benjamin Markovits ripercorre, in bilico tra memoir e narrativa, il viaggio che ha compiuto inseguendo i suoi sogni e le sue ossessioni giovanili, offrendo al lettore – come ha scritto Thomas Bunstead sull’«Independent» – una sagace «anatomia del fallimento».
Appena uscito dal college, il protagonista/narratore del romanzo, Ben Markovits, parte alla volta dell’Europa e sbarca a Landshut, in Baviera, per unirsi a una squadra di basket, che militano nel campionato cadetto, gli Yogurt. Aspirante scrittore in cerca di esperienze, Ben entra in contatto con un gruppo di atleti dalle storie disparate, tedeschi, americani, transfughi dell’ex blocco sovietico – un assortimento che somiglia a un insieme di «sedie spaiate nella bottega di un rigattiere» –, tra cui spicca un giovane talento di due metri e tredici, Karl, per il quale molti pronosticano un luminoso futuro nella Nba. Ben diventa presto amico di Olaf, un ragazzo di origini ivoriane adottato da una famiglia tedesca, e di Bo Hadnot, un ebreo del Mississippi giunto ormai a fine carriera ma ancora dotato di un infallibile tiro in sospensione. Nel frattempo, Ben partecipa pur riluttante all’atmosfera goliardica e al livoroso cameratismo degli Yogurt, entrambi animati dalla parlantina di Charlie, il playmaker, un nero di Chicago che molti ritengono gay. Certe sere, però, Ben si sottrae alle chiacchiere e alle polemiche da spogliatoio per ritirarsi nella solitudine del suo appartamento in collina: si fa la doccia al buio (per tenere lontano anche dai suoi pensieri «lo sguardo degli altri»); cerca di mangiare qualcosa, benché i bizzarri orari di allenamento gli tolgano l’appetito; e osserva dalla finestrella del bagno una ragazza dai capelli lunghi che si mostra di solito dopo le dieci e mezzo di sera, quasi volesse condividere un intimo rituale con il ragazzo che la spia.
Relegato nel ruolo di eterna riserva, Ben, bilingue e curioso, cerca di utilizzare il tempo libero per scrivere e per recuperare le proprie radici («Volevo ritornare a qualcosa,» ci informa Ben nei primi capitoli «all’infanzia di mio padre così come alla mia»). Lavora a un progetto che ha iniziato durante l’università (e che poi diventerà The Syme Papers, il primo libro pubblicato da Markovits, la storia di un uomo che credeva che la Terra fosse vuota), e intanto prende appunti sui suoi compagni di squadra, Hadnot e gli altri: Milo, il croato con la faccia da pugile, Darmstadt, lo studentello del liceo figlio di un farmacista e di una contadina, Thomas Arnold, appassionato di canto corale, Plotzke, ribattezzato «Frankestein» da Charlie per via del fisico da orco. Anche se sarà forse un elemento esterno, il talent scout della Nba Mel Zweigman (un ebreo di Cleveland), ad aprire gli occhi a Ben sui segreti del basket – con tutte le possibili analogie con la vita reale –, oltre a rivelargli un paio di dettagli concreti che riguardano gli Yogurt: ossia che Karl, l’astro nascente del basket tedesco, guadagna quanto lui, mentre il veterano Hadnot ha un contratto di tre mesi in scadenza (in effetti, poco dopo le vacanze di Natale, l’americano verrà tagliato e andrà a unirsi alle file del Würzburg, antico e acerrimo rivale del Landshut).
Quando ha il venerdì pomeriggio libero, Ben frequenta la sinagoga di Monaco (che dista un’ora di treno da Landshut) e si aggira per il quartiere di Schwabing, dove molti anni prima vivevano i bisnonni paterni, ossia il ramo ebraico della sua famiglia. Non riesce a localizzare la loro vecchia casa (forse è stata rasa al suolo durante la guerra), ma un giorno in treno incontra la vicina dai capelli lunghi che osserva la sera dalla finestrella del bagno. Si chiama Anke, ha una figlia di tre anni, Franziska, e si è separata da poco dal marito… Bo Hadnot. Tra Ben e Anke nasce una relazione dapprima tenera e poi sempre più intensa e coinvolgente, complicata dalle differenze culturali (Anke è cristiana e non ha mai finito le scuole), dalla presenza della piccola Franziska e dalla ingombrante assenza di Hadnot. Un rapporto difficile da gestire, fondato su un misto di dipendenza, desiderio e sensi di colpa, che potrebbe cambiare la vita del giovane protagonista o al contrario confermare ulteriormente le sue convinzioni – ossia che gli adulti non sono per niente «bravi a fare gli adulti». Alla fine della stagione, nonostante la partita di playoff contro il Würzburg regali al Landshut la promozione in prima divisione (con una giocata quasi decisiva di Ben in marcatura su Hadnot), Ben si renderà conto di essere meno bravo come giocatore di quanto non sia a fare il Dolmetscher – l’«interprete» –, eternamente sospeso tra mondi diversi.
Un gioco da grandi è un romanzo dal sapore autobiografico, anche se – come segnala sottilmente la citazione di Byron in esergo – è difficile stabilire le esatte proporzioni di verità e fantasia che concorrono a formare il risultato finale, che appare una rielaborazione piuttosto libera di uno spaccato di vita in cui il ricco materiale di partenza (lo sport, le partite, i compagni di squadra, ecc.) è stato sistemato e ordinato in una struttura narrativa precisa, ma dotata allo stesso tempo dell’andamento episodico e casuale di un diario privato. Questa potrebbe essere la ragione per cui alcuni personaggi (come ad esempio Olaf o Zweigman) – che in un’opera «di sola fantasia», come direbbe Byron, sarebbero stati probabilmente sviluppati in funzione della trama – vengono dapprima introdotti, raccontati nei dettagli e infine abbandonati.
Durante la sua esperienza come giocatore professionista (una sola stagione, a ventidue anni – «the unhappiest year of my life»), Markovits aveva scritto una lunga lettera a casa dal ritiro di Pezinok, in Slovacchia. E una volta deciso di chiudere con lo sport aveva tentato di ricavare qualcosa da quella lunga lettera, inviandola a varie redazioni. Una donna della Bbc si interessò all’idea, e filmò il ragazzo che leggeva qualche brano, mentre un giovane editor di Random House gli propose di scrivere un memoir su questa esperienza. Ma entrambi i progetti non si realizzarono. Oltre dieci anni dopo, Markovits ha deciso di riprendere in mano il soggetto: «I turned it into fiction – I had worked out the vein of autobiography with constant redrafting. Nothing that had happened to me seemed very real any more. But I wanted to give the novel the feel of memoir, of awkwardly shaped experience» («The Observer», 30 maggio 2010). Una svolta verso la narrativa, dunque, che mantiene certe caratteristiche del memoir, come ha rilevato anche James Purdon («The Observer», 13 giugno 2010): «At times the prose lacks polish, and it may be that the roughness is one of those subtle felonies of fiction, a kind of texture in the style of an accomplished writer trying to come to terms with a version of his younger self»; poi, paragonando Markovits al personaggio di Charlie, «un maestro nell’arte della naturalezza», Purdon conclude: «The author seems to want to reverse that mastery, or to recognise, by a kind of artful awkwardness, the effort required to achieve it».
Molti dei personaggi di Un gioco da grandi derivano dalla realtà, ma sono stati ricreati dalla fantasia dell’autore, al di là del nome cambiato. Hadnot, perciò, deve qualcosa senz’altro a Johnny Roberson, il miglior giocatore della squadra in cui militava realmente Markovits. (Il club finì a corto di soldi a metà stagione e fu costretto a tagliarlo, come capita a Hadnot). Ma Johnny aveva giocato a lungo in Scandinavia, non in Francia, e non era ebreo, bensì nero, e potrebbe perciò aver prestato qualche tratto anche all’altro americano del romanzo, Charlie.
Uno dei personaggi più affascinanti della squadra è la giovane promessa di diciassette anni, che nel libro si chiama semplicemente Karl – «non solo per una questione legale» dice Markovits. Ma è fin troppo facile per chiunque conosca il basket riconoscere in Karl la vera figura di Dirk Nowitzki, forse il miglior cestista europeo di sempre: Karl viene definito «un futuro Mvp della Nba» (l’unico europeo ad aver vinto il titolo di miglior giocatore in America è appunto Nowitzki), ma ci sono anche altri dettagli meno ovvi disseminati nel testo (l’altezza, lo stile di gioco che «ha cambiato il ruolo dei lunghi nel basket contemporaneo», l’abbigliamento, la faccia priva di espressione, ecc.). Nowitzki aveva davvero diciassette anni quando Markovits era un professionista in Germania, ma non giocava in squadra con Markovits; i due si sono incontrati però da avversari: Nowitski era la stella del Würzburg, la squadra che un paio d’anni dopo vinse realmente il campionato e salì in prima divisione (e che nella finzione sfida il Landshut nei playoff).
Ad ogni modo, il personaggio di Karl («due metri e tredici, rapido, coordinato…»), seppure defilato nella storia, riveste un ruolo importante nel definire il tema centrale esplorato da Markovits nel romanzo: il fallimento o, meglio, il senso di fallimento che pervade il protagonista quando, ancora pieno di sogni e ingenue ambizioni, si accosta per la prima volta al vero talento – e capisce cosa significhi realmente «essere bravo» in qualcosa.
«Mi sentivo un po’ come Don Chisciotte» ha raccontato Markovits in un articolo uscito molto prima del romanzo («The Observer», 7 settembre 2003). Solo che i mulini a vento erano giganti in carne e ossa che gli hanno fatto assaggiare senza tanti complimenti la sensazione della sconfitta, e della propria inadeguatezza. «Se volevo emergere in quel campionato» scrive Ben nel libro «avrei dovuto farmi largo con un bagaglio di qualità decisamente limitato».
Tutto ciò che è meno della perfezione tecnica e atletica rappresentata da Karl, sostiene Markovits, è in un certo senso un fallimento, perlomeno rispetto alle ambizioni di partenza, quelle che nutre qualunque ragazzo quando inizia a praticare il basket, come qualsiasi altro sport. «La relatività», si legge nel libro, è una degli aspetti peggiori dei campionati minori: «quando hai perso non hai perso solo contro i tuoi avversari, ma contro tutti quelli che militano nei campionati più importanti». E ancora: «Ero capitato per caso dalle parti di Karl, ma in Germania dovevano esserci altre cento città con un piccolo campione capace di rifilarmi lo stesso trattamento». Ancora più scioccante è rendersi conto che Karl (che all’inizio della storia guadagna quanto Ben), tra breve lascerà la seconda divisione e la Germania per andare a giocare in una lega, la Nba, dove ci saranno decine di campioni forti come lui (e con un contratto da 25 milioni di dollari!).
Il fallimento, naturalmente, non si limita all’àmbito sportivo, né a Ben. Il libro è il racconto di un vagabondaggio esistenziale, durante il quale il protagonista incontra una serie di altri personaggi «alla deriva» come lui, dal croato Milo (che ha cambiato addirittura nome) a Olaf (figlio adottivo), da Hadnot (che ha tagliato tutti i ponti col passato, inclusa la sua identità religiosa) a Anke, che è rimasta sola con la sua bambina e vorrebbe tanto andarsene da quel «buco del cazzo» di Landshut.
Per Ben, almeno, il naufragio dei sogni sportivi rappresenta il momento della presa di coscienza, una tappa decisiva della sua maturazione. E non è un caso che questa avvenga tra Monaco, da cui ha origine il ramo ebraico della famiglia di Ben, e Flensurgo, cittadina natale di sua madre – in una casa nel bosco al confine con la Danimarca, dove Ben e Anke vanno a passare il Natale insieme, vivendo forse i giorni più sereni della loro complicata relazione.
Proprio il dissidio interno di Ben, insieme a una certa ambivalenza rispetto alla propria identità, segnerà la fine del rapporto tra Ben e Anke – una fine che, significativamente, è annunciata da un fallimentare incontro con il rabbino di Monaco, guarda caso un americano che parla male il tedesco: i due ragazzi sono lì per sapere quali passi debba compiere Anke per convertirsi all’ebraismo, per sposarsi secondo le tradizioni ebraiche. È una situazione paradossale in cui Ben si è cacciato per colpa sua, per un pizzico di passività e troppe omissioni – «tutto quello che faccio lo faccio per pigrizia e testardaggine, dipende dallo stato d’animo che prevale al momento» –, e l’unico modo per tirarsene fuori sembra quello di abbandonare Landshut, e i campi da basket, accettando la propria sconfitta. Anche se nell’epilogo del libro Ben, chiudendo idealmente il cerchio, si ripresenta dal vecchio allenatore della sua scuola, in America, e gli dice: «Ce l’ho fatta». Ce l’ho fatta a superare gli ostacoli che mi bloccavano da ragazzo. E il fallimento si può trasforma in un’occasione per cominciare una vita diversa.
(Michele Martino, maggio 2012)