Trentacinque secondi ancora. A cinquant’anni da Messico ’68
16 ottobre 1968, Olimpiadi di Città del Messico. Sono le 20.41 quando è in corso la premiazione dei 200 metri. Sul gradino più alto c’è l’americano Tommie Smith, vincitore col primato del mondo di 19″83. E poi c’è il bronzo di John Carlos, preceduto a sorpresa da uno sprinter bianco, l’australiano Peter Norman. Ma durante le note dell’inno americano, il rito del podio diventa protesta: Smith e Carlos, scalzi, sollevano i pugni chiusi al cielo, indossando dei guanti neri. Simbolo di protesta contro le discriminazioni cui sono sottoposti gli afroamericani e il sostegno al Black Panther Party. Squalificati a vita dalle Olimpiadi, i due atleti rimarranno soli a fronteggiare le minacce di morte e l’ostracismo dell’establishment.
A cinquant’anni esatti dalla celebre foto della premiazione, divenuta un’immagine simbolo del secolo scorso, vi proponiamo un estratto del libro Trentacinque secondi ancora di Lorenzo Iervolino. Buona lettura!
16 ottobre 1968 ore 20.36
Il tunnel è silenzioso, alcuni giudici di gara lo attraversano con il cappello in mano. In fondo, in lontananza, il rumore dei tacchetti di qualcuno che deve ancora gareggiare. La voce, che Tommie sente appena, in un inglese che gli pare poco comprensibile, parla di possibile pioggia nei prossimi giorni. Davanti a sé vede John con la giacca della divisa slacciata, sul suo collo risaltano i colori verde, rosso e giallo delle collanine. Ad un cenno di John, Tommie annuisce, poi si volta sulla sua destra e, parlando piano, rivolge la parola a Peter Norman: «Ehi, Pete, ascolta. Non vogliamo metterti in difficoltà, ma io e John faremo un gesto di protesta sul podio e volevamo avvisarti».
Poco prima, nello spogliatoio, Tommie aveva detto a John che salire sul podio con i calzini neri in vista, come già si dicevano da mesi, non sarebbe bastato. Avrebbe voluto aggiungere un atto dimostrativo. «Pensavo che potremmo camminare attorno al podio, durante l’inno, con la testa bassa. Oppure… usare questi». Intanto aveva tirato fuori i guanti neri di pelle che sua moglie Denise aveva comprato lì a Città del Messico. Aveva tenuto il destro per sé e dato il sinistro a John Carlos. «Con questi dobbiamo far capire da che parte stiamo, ’Los. Potremmo mostrare i pugni stretti… Sì, dovremmo fare così». Poi, fissando l’amico aveva aggiunto: «Comunque, qualsiasi cosa faccio su quel podio, vienimi dietro. Ok?».
«Che tipo di… protesta?» chiede Peter Norman.
Tommie vede John fare un passo avanti e gli sente dire: «È una cosa che ha a che fare con i diritti umani, con l’uguaglianza tra le persone. Vedi?».
Tommie respira a fondo e segue l’indice della mano destra di John, quella senza guanto, rivolto alla spilla bianca con l’alloro verde del Progetto olimpico per i diritti umani appuntata sul petto. Al contrario di Tommie, in quei due giorni John l’aveva esibita anche durante le gare. «Tu credi nei diritti umani, Peter?» chiede John, mentre Tommie si sistema la sciarpa nera attorno al collo. «Credi nell’uguaglianza?».
«La mia famiglia, in Australia, è impegnata da sempre con l’Esercito della Salvezza». Tommie ascolta la risposta di Norman arrivare immediata, con voce calma, direbbe coinvolta. «Io stesso fin da piccolo mi sono impegnato per aiutare il prossimo e, assolutamente sì, io credo nei diritti umani» dice Peter, spostando lo sguardo da John a Tommie. «Sto con voi».
I tre vengono chiamati da un giudice e si dirigono verso gli scalini che portano al campo di gara. Tommie sente John chiedere a Peter se vuole indossare anche lui la loro spilletta e capisce che l’australiano ha accettato, perché vede John ricevere una spilletta del Progetto olimpico da Paul Hoffman, il canottiere americano che, nel frattempo, era comparso nel sottopassaggio per congratularsi. Prima delle scalette d’uscita del tunnel, i tre medagliati dei 200 metri olimpici sono in fila in ordine di podio, con Tommie Smith al centro.
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