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Tra il ventre e l’uovo. Una storia di relazioni di Lola Shoneyin

Lola Shoneyin legge il suo testo inedito a Letterature 2015

Lola Shoneyin legge il suo testo inedito a Letterature 2015


Lola Shoneyin
, autrice del romanzo Prudenti come serpenti, è stata ospite della XIV edizione di Letterature. Festival Internazionale di Roma. Leggi qui sotto il testo – tradotto in italiano da Isabella Ferretti – che la scrittrice nigeriana ha letto durante la serata del 16 giugno, intitolata Relazioni, alla quale erano presenti anche Nicola La Gioia, Edmund White e Daša Drndić.

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Tra il ventre e l’uovo. Una storia di relazioni di Lola Shoneyin

Le relazioni negli ambienti domestici hanno sempre suscitato la mia curiosità, probabilmente perché nella casa in cui sono cresciuta c’era un vocio ininterrotto. Si tenevano conversazioni animate, dibattiti, e aleggiava una buona dose di bellicosità frutto di dispute e disaccordi. Fino all’età di sedici anni, pensavo fosse normale per i figli starsene nascosti mentre i genitori litigavano; pensavo anche che durante l’infanzia livelli sempre crescenti di tensione e angoscia fossero normali. Ma forse è utile fornire qualche dettaglio in più.

Mia madre è di stirpe reale e godeva di grande favore presso suo padre (il re), che l’ha vestita con abiti maschili fino al compimento dei quattro anni. Adolescente, lo accompagnava alle funzioni importanti e sedeva accanto a lui nel tribunale del re. La gente mi ha raccontato che quando gli uomini e le donne del villaggio presentavano i loro problemi al tribunale del re, lui si consultava con mia madre prima di rendere il suo giudizio ed emettere la sentenza. Mia madre è cresciuta in un ambiente in cui era tenuta in grande considerazione, dove si dava importanza a quello che diceva e la gente ascoltava attentamente ogni parola che pronunciava. Suo padre, nato nel 1896, aveva ricevuto un’ottima istruzione grazie ai missionari inglesi. Suonava l’organo della chiesa e scriveva libri sui rimedi naturali e l’interpretazione dei sogni. Usava un corsivo inglese meraviglioso e dopo la scuola secondaria volle mandare i figli in Inghilterra perché continuassero gli studi. Ma con grande disappunto di mia nonna, una volta diventato re, si piegò ai dettami della tradizione, che impone di diffondere il seme reale, e abbracciò la poligamia. Non era perfetto, insomma.

Di contro, mio padre veniva da un background completamente diverso. È cresciuto nella miseria più nera. Sua madre morì quando aveva sei anni ed è stato tirato su dal padre e dal nonno. Erano entrambi dei babalawo – tradizionali sacerdoti di Ifa, dei guaritori. Tutto lasciava presumere che mio padre avrebbe seguito le loro orme, ma lui aveva altri piani. Colpito dalle scuole che erano appena state fondate dai missionari, decise in segreto di procurarsi un’istruzione. Dopo aver frequentato le elementari nel villaggio, non aveva i mezzi per andare alle medie, che si trovavano molto lontano, così durante le vacanze prendeva in prestito i libri di testo e quelli degli esercizi da chi poteva permettersi di continuare a studiare e ne copiava il contenuto a mano. Quando arrivò il momento di sostenere gli esami, mio padre ottenne il punteggio più alto dell’intera regione. Grazie a questo risultato, riuscì ad aggiudicarsi una serie di borse di studio.

Ed ecco queste due persone, di estrazione sociale così diversa, che decidono di sposarsi a Londra all’inizio degli anni Sessanta: avranno sei figli, di cui io sono l’ultima, nonché l’unica femmina. Ma perché mi prendo la briga di raccontare tutto questo? Ad essere onesta, ho cominciato per fornire una spiegazione, forse anche una scusa, ai miei comportamenti. È risaputo che il contesto familiare nel quale nasciamo influenza in maniera decisiva il nostro modo di concepire le relazioni – le dinamiche, le gerarchie di potere, l’interazione tra uomini e donne. La vita familiare plasma la nostra percezione delle situazioni domestiche, non c’è dubbio. In un paese come la Nigeria, dove cultura e tradizione giocano un ruolo dominante nel determinare l’immagine che coltiviamo di noi stessi e del resto della società, è all’interno della famiglia che tracciamo la prima definizione di chi siamo e, cosa ancora più importante, di quello che possiamo o non possiamo fare. Le nostre aspirazioni prendono forma molto presto. Per quanto traumatizzata dal costante conflitto sul fronte domestico, questa disfunzione ha avuto un impatto interessante su di me. Mia madre era una che non scendeva quasi mai a compromessi; era anche forte, e determinata, e non si conformava alle comuni regole di comportamento. Non vedeva alcuna ragione per non averla sempre vinta lei e sapeva rendere la vita impossibile a chiunque finché non riusciva a ottenere esattamente quello che voleva. Se si tralascia il fatto che mi ha insegnato a cucinare, non c’è nessuna differenza nel modo in cui ha educato me e i miei fratelli. Mi è stato insegnato a essere responsabile, sono stata incoraggiata a mantenere la mia autonomia di pensiero e a non accettare di essere maltrattata, soprattutto dagli uomini.

Naturalmente, la ribellione giovanile è molto differente da quello che ci accade quando veniamo lasciati liberi di muoverci nella società, quella vera, e ci rendiamo conto che le barriere con cui le donne devono misurarsi sono imponenti. Nessuno mi aveva preparato a questo. Ho camminato con grande arroganza nel mondo degli adulti, senza consapevolezza delle limitazioni che avrei incontrato.

Il mio primo libro di poesie è stato pubblicato quando avevo ventitré anni. Si intitola So All the Time I was Sitting on an Egg, un riferimento diretto al fatto che il mondo che credevo di conoscere stava crollando intorno a me, o sotto di me. In molti lo hanno descritto come un pamphlet femminista, e a me è stata affibbiata l’etichetta di odiatrice-di-uomini, mangiatrice-di-uomini e, la mia preferita, lesbica. E come dare la colpa ai miei detrattori? Il brano più citato del mio libro si chiamava «Clitoranguish», in cui criticavo con durezza alcune istituzioni tradizionali come la poligamia e altre sovrastrutture patriarcali. La mia seconda raccolta di poesie, Song of a Riverbird, uscita nel 2002, rivela la disillusione che nutro nei confronti dell’architettura sociale del mio paese. Ho scritto con franchezza di aborto, di perdita. All’epoca leggevo molte opere di Anne Sexton e forse per questo stavo abbandonando, quasi senza accorgermene, qualunque inibizione, anche in risposta all’accoglienza riservata al mio primo volume. Ero piena di rabbia, sprezzante, e quando ho pubblicato la terza raccolta di poesie, For the Love of Flight, non mi preoccupavo più di come avrebbe reagito la gente. Ormai ero determinata a scrivere quello che volevo, e che ritenevo necessario e importante. In questo libro ho esplorato il tema della scelta, della libertà, e scritto versi in cui criticavo tutte le donne al governo, o comunque inserite nella società, che non fanno abbastanza per la causa delle donne nigeriane.

Non è certo un caso che il mio primo romanzo si concentri sulla poligamia – una pratica tradizionale che ha contribuito molto a sminuire la dignità delle donne, e che le mette in competizione le une con le altre mentre un uomo solo si diverte a ricevere le loro lusinghe e a vederle combattere per un gesto d’affetto. Il romanzo si basa su una storia vera che mi ha raccontato uno studente di medicina. Avevo quattordici anni e stavo cercando di diventare una ragazza brillante grazie alla lettura di una pièce teatrale di Wole Soyinka, Il leone e la perla, in cui una donna giovane e bella si divide tra due uomini: il vecchio capovillaggio, ricco e viziato dalle sue tante mogli, e un ragazzo colto con pochi soldi ma dall’inglese impeccabile, pieno di espressioni ricercate. La giovane, Sidi, alla fine sceglie il capovillaggio. Da adolescente il racconto mi sembrava ridicolo perché non riuscivo a capire quanto la tranquillità economica fosse importante. In realtà, era un fattore che non avevo mai dovuto tenere in considerazione.

Ma quando ho cominciato a scrivere il mio romanzo, The Secret Lives of Baba Segi’s Wives, tradotto in italiano con il titolo Prudenti come serpenti, sapevo ormai che le pratiche sociali sono in linea generale nemiche delle donne indipendenti o single, e delle donne che aspirano a diventare qualcosa di più di una moglie. Ricordo quella volta che ero in banca e mi sono opposta con forza a un tizio che voleva saltare la fila. «Non ce l’hai un marito che ti insegna a rispettare gli uomini?» mi ha detto.

Accade ancora troppo spesso negli uffici, quando si decide di fare una pausa durante una riunione, che gli uomini si voltino verso le donne presenti, aspettandosi che siano loro a mettere in tavola gli snack. È triste, ma il successo di una donna si misura dal fatto che abbia un marito e spesso anche in base a chi ha sposato. È umiliante che si neghi un’occupazione a una donna divorziata perché «se non riesce a gestire una famiglia [e a tenersi un uomo], come può avere le capacità di gestire un ruolo importante sul lavoro?». Di sicuro, la violenza fisica, emotiva e psicologica che le donne devono spesso sopportare per mantenere lo status di «donna sposata» viene opportunamente ignorata. E le donne che scelgono di uscire da un matrimonio che le annienta non sono considerate né eroine né vittime; la percezione comune è che siano delle fallite, paria e potenziali rubamariti. Già, perfino il genere femminile ha paura di questa sorta di «audacia». Una donna single costituisce una minaccia; il fascino di una donna cacciatrice fa paura.

Nel romanzo, metto in discussione le pratiche tradizionali e diversi elementi dati per acquisiti nella nostra cultura, con particolare riferimento alle relazioni e alla vita domestica; guardo al ruolo che la salute mentale, il fondamentalismo religioso e perfino i figli, giocano in alcuni rapporti. Cerco di esplorare la complessità della relazione madre/figlia, soffermandomi su come molte donne tramandino i loro pregiudizi, la loro autodenigrazione alle figlie femmine. Osservo la modernità e le battaglie che perde contro la tradizione. Lodo le virtù della scienza, della medicina e della psicologia contemporanee – discipline che continuano a demistificare alcune delle nostre credenze più radicate.

In questo specifico momento storico, quello che mi preoccupa di più è la maniera in cui si perpetra una nuova forma di disumanizzazione delle donne a opera di Boko Haram, un gruppo terroristico che condanna l’istruzione e la libertà religiosa. Molti di voi ricorderanno che questi estremisti vigliacchi hanno rapito più di duecento ragazze nel nord della Nigeria, mentre si trovavano a scuola tentando di procurarsi un’istruzione. Non è stata la prima volta e non sarà l’ultima. Poco più di un mese fa, l’esercito nigeriano ha liberato circa trecento tra donne e ragazze nella foresta di Sambisa. Quando se ne sono andate non erano nelle stesse condizioni di quando erano state prese: duecento di loro erano a differenti stadi della gravidanza, hanno raccontato storie di stupri multipli compiuti da gruppi di uomini per periodi di tempo che arrivano fino a diciotto mesi. Alcune hanno anche riferito di essere state costrette a sposare degli sconosciuti e di essere state ridotte così a schiave del sesso.

Nel commentare questa tragedia, i cristiani hanno detto la loro, e così i moralisti, e naturalmente sono quasi tutti uomini. Considerato l’orrore di cui queste donne hanno dovuto fare esperienza, è scioccante vedere che tanti di loro sono così preoccupati del rispetto di precetti religiosi astratti da opporsi attivamente all’aborto di quante vogliono o devono farlo. C’è una generale incapacità di valutare le conseguenze della violenza sessuale, del trauma psicologico che è stato inflitto a queste donne e con cui dovranno vivere per il resto della vita. E tutto questo accade nel contesto di una società profondamente religiosa, e perciò incline a giudicare, in cui le scelte a disposizione delle donne sono limitate e l’approvazione della maggioranza è considerata una cosa molto più preziosa del benessere, della pace e della realizzazione di un individuo. Per quanto mi riguarda, questa abdicazione della responsabilità collettiva è il risultato diretto del fallimento dell’immaginazione, dell’incapacità di provare un’empatia autentica. Le donne sono diventate casi di studio teorici per fanatici religiosi e per bande di moralisti.

Nei miei scritti, la donna prospera in una realtà in cui le scelte e le opportunità sono poche e di scarso valore. Non di rado, infatti, le donne che raggiungono una qualunque forma di successo fanno ricorso a un’intelligente manipolazione delle regole tradizionali, formulate dagli uomini e perpetuate da donne meno accorte.

La verità è che finché alla gente verrà inculcata sin dalla prima infanzia l’idea della supremazia dell’uomo sulla donna, che permette agli uomini di mantenere il controllo dei destini delle donne, e finché l’incontrovertibile base che legittima questo stato di cose si troverà nelle pieghe della tradizione e delle credenze religiose, il lavoro della letteratura non avrà mai fine. Non possiamo abbandonare la battaglia per l’alfabetizzazione e l’istruzione universali. E la letteratura, per parte sua, deve continuare a colmare i vuoti nell’immaginario di menti retrograde e patriarcali. Il potere della letteratura risiede nella sua capacità di riportare in vita l’umanità, e di questo il nostro mondo ha bisogno più che mai.

 

© Lola Shoneyin, 2015
traduzione italiana di Isabella Ferretti
© 66thand2nd, 2015

(Il testo di Lola Shoneyin è stato pubblicato sul «Corriere della Sera» il 16 giugno).

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