Un estratto da Muhammad Ali. Il più grande, il ritratto del pugile più famoso di sempre firmato da Joyce Carol Oates nel classico Sulla boxe, la raccolta definitiva dei suoi scritti sulla nobile arte.
Nell’America del Ventesimo secolo, e forse in maniera più spettacolare negli anni Settanta, gli sport sono arrivati a essere la nostra religione principale. Sempre sotto l’occhio smanioso dei media, i nostri atleti più acclamati acquisiscono uno status mitopoietico, sono allo stesso tempo «più grandi della vita» e spesso inadatti alla vita in termini quotidiani, personali. Per essere un campione basta solo offrire prestazioni costantemente migliori dei propri avversari. Per essere un campione, come Muhammad Ali, è necessario andare oltre i confini dello sport in sé per diventare un modello (in taluni casi un modello sacrificale) per la gente normale, il portatore dell’immagine di un’epoca.
Nonostante fosse arrivato alla ribalta giovanissimo negli anni Sessanta, e avesse in quegli anni lasciato il segno come presenza politica radicale, fu negli anni Settanta che Ali raggiunse la grandezza. Gli anni Settanta, che seguirono alla fine ingloriosa della guerra in Vietnam, sono per noi un decennio di transizione, un periodo di adattamento, di guarigione e di nuove valutazioni. Chi avrebbe mai pensato che lo sprezzante rifiuto di Ali di riconoscere la politica estera americana, a metà degli anni Sessanta, ritenuto in pratica un tradimento da certi osservatori, nel decennio a venire avrebbe finito per essere una posizione politica diffusa e di tutto rispetto? Chi avrebbe mai pensato che l’atleta nero solitario, come Ali, un tempo ostracizzato dalla stampa e dalla televisione, sarebbe diventato simbolo della «nuova» èra in cui, seguendo il suo esempio, atleti come Reggie Jackson (il primo giocatore di baseball professionistico a portare i baffi dal 1914) potevano esprimersi (o mostrarsi) in atteggiamenti fondamentalmente giocosi, teatrali, che poco avevano a che vedere con la loro mansione pratica di atleti? Chi avrebbe mai pensato che comportamenti così ostentati e controversi, come il vezzo di Ali di declamare poesie e il suo comico «Ali shuffle» avrebbero influenzato una nuova generazione di neri? − nella musica, dove il rap acquistò rapidamente importanza, e nei graffianti numeri comici di artisti come Richard Pryor; soprattutto nel basket, con giocatori del calibro di Michael Jordan, che abbinavano alla straordinaria bravura, come Ali, un senso personale dello stile? (Si faccia il confronto con l’immagine pubblica dimessa e innaturale di personaggi come Joe Louis, Ezzard Charles, Jackie Robinson, appartenenti a un’epoca precedente in cui all’atleta nero veniva fatto capire che la sua presenza era temporanea e non un diritto; che la sua stessa carriera era un privilegio che poteva essergli tolto in qualsiasi momento). Il fenomeno dell’attenzione mediatica e dello scalpore che circondò ogni singolo passaggio della carriera di Ali non aveva precedenti, proprio come le borse sempre più ricche e i compensi pagati oggigiorno agli atleti professionisti sono una conseguenza del ruolo svolto da Ali nella coscienza pubblica. Magari in sport come il baseball e il football la possibilità di fare il battitore libero sarebbe a tempo debito arrivata, ma non così rapidamente negli anni Settanta (fino allo sciopero dei giocatori di football del 1974, per dirne una) senza l’esempio di Ali. Ali è il «battitore libero» per eccellenza, come avrebbe potuto essere Jack Johnson, il suo predecessore tanto denigrato, se non fosse stato per l’irriducibile opposizione del razzismo dei bianchi dell’epoca. E Ali fu il pioniere musulmano che con il suo esempio risoluto permise ad atleti quali Lew Alcindor-Kareem Abdul-Jabbar di cambiare nome e di non dover nasconder di essere membri di una religione chiaramente non cristiana e non tradizionale.
Tra gli storici della boxe e gli appassionati si discuterà a lungo se sia stato Ali o Joe Louis il più grande peso massimo della storia. (E che dire allora dell’imbattuto Rocky Marciano?). È fuori discussione però che Ali, come atleta, campione e icona culturale, abbia acquisito un significato che va al di là dello sport e che nessun altro pugile ha mai raggiunto, né è probabile che raggiunga. (Prima della supremazia di Ali nei suoi incontri con Joe Frazier, a catturare l’attenzione del pubblico era stato il vendicativo Joe Louis nella vittoriosa sfida contro Schmeling nel giugno del 1938. Dopo essere stato battuto nel 1936 da un atleta di «razza superiore» della Germania nazista, il ventiquattrenne Louis era tornato per mettere ko Schmeling in centoventiquattro secondi, nell’incontro di boxe più famoso della storia americana). All’inizio degli anni Sessanta, la folgorante ascesa del giovane Muhammad Ali, pugile stravagante ma con una determinazione e un talento straordinari – ascesa culminata con l’inattesa sconfitta di Sonny Liston nel 1964 –, venne a coincidere con almeno tre avvenimenti storici eccezionali per quell’epoca: il primo, l’intervento in Vietnam degli americani, intrappolati e sempre più impantanati in quella che era, pur non essendolo, una guerra tradizionale che stava spaccando la società americana lungo le faglie di classe, razza, generazioni, convinzioni politiche e patriottiche; il secondo, la nascita dei movimenti separatisti neri successivi (ma in realtà precedenti) all’assassinio di Martin Luther King Jr nel 1968, e la consapevolezza dei leader militanti neri che, dalle vittorie per i diritti civili degli anni Cinquanta, il cammino dei neri si era arrestato; il terzo, la sempre maggiore influenza dei media e la crescita di quello che si potrebbe definire il mercato elettronico di massa di «immagini» avulse dal contenuto.
«È lo stile a fare l’incontro» diceva il grande allenatore di Ali, Angelo Dundee, riferendosi alle prestazioni del suo giovane e smagliante pugile, ma l’osservazione è in generale valida per la riproduzione di massa delle immagini. Cassius Clay-Muhammad Ali si sarebbe presto rivelato il maestro di un nuovo stile, radicalmente iconoclastico, nella vita pubblica. Si rifiutava di essere schivo nella maniera circospetta dei suoi predecessori neri come Louis, Ezzard Charles, Jersey Joe Walcott e Floyd Patterson; la sfrontatezza con cui gioiva della sua negritudine richiamava alla mente Jack Johnson, il controverso primo campione nero dei pesi massimi (1908-1915), di cui gli atleti neri (e i loro allenatori e manager bianchi) non avevano alcuna voglia di emulare l’esempio. (Consideriamo il percorso di gran lunga più cauto, ma non per questo meno difficile, di Jackie Robinson appena dieci anni prima). Pur se gravato da questioni di religione, razza ed «ego», il messaggio fondamentale di Cassius Clay-Muhammad Ali alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta fu semplice e provocatorio: Non sono tenuto a essere quello che volete farmi essere.