Rue de Berne, numero 39 di Max Lobe. Un estratto
Dipita è cresciuto in Rue de Berne, nel cuore del quartiere a luci rosse di Ginevra, accudito da una combriccola wolowoss, lucciole affettuose e pettegole che gli insegnano come stare al mondo e difendersi da spacciatori, «mariti di professione» e venditori di kebab. Ora che è rinchiuso nel carcere di Champ-Dollon, e ha tempo per riflettere sulla propria vita, il ragazzo decide di ricostruire le tappe del viaggio che ha condotto la sua famiglia da un piccolo villaggio del Camerun alla ricca metropoli elvetica…
Nell’augurarvi buona lettura, ricordiamo che Rue de Berne, numero 39 di Max Lobe è disponibile in tutte le librerie italiane nella traduzione di Sándor Marazza.
Dal mio pouf a pera, contemplo la bellezza di mia madre. Ne guardo i lineamenti seri, gli occhi grandi, le labbra carnose, il naso schiacciato-schiacciato, le guance tonde, il viso allungato. Un tipico viso da bantu, come dice lei stessa con un certo orgoglio. La guardo cullarsi lentamente sulla sedia a dondolo. Il seno abbondante, che trabocca dallo stretto corsetto nero, segue armoniosamente i movimenti del corpo. La misura del suo seno mi è sempre parsa proporzionale a quella del fondoschiena. Spesso, delle donne dalle forme generose come mia madre, si dice che sono delle bombe. Ma mia madre non è solo una bomba, è un’atomica! Sarà per quello che ha tanto successo sui marciapiedi di rue de Berne.
Mia madre sta sulla sua sedia a dondolo e va. Va e viene, sempre fumando tranquilla. Sbuffa grosse nuvole di fumo verso il soffitto del nostro piccolo soggiorno. Con lo sguardo penetrante, scruta le nuvole di fumo svanire a modo loro sul vecchio lampadario di bronzo che ha raccattato al mercatino dell’usato all’angolo. Guarda quelle nuvole di fumo come se fosse lì che si trovano i dettagli della storia di cui aspetto ancora il seguito.
Mbila non ha fretta; sono così le ragazze bassa che si credono principesse bantu. Non puoi strappar loro qualcosa di bocca.
Mentre fuma, io non le levo gli occhi dal corpo. La guardo, la guardo, e a un certo punto mi soffermo sui capelli. Sono capelli finti, lisci e biondi, che si è fatta fissare sui suoi capelli crespi, dolorosamente intrecciati. So che per lei è l’unico modo per avere i capelli lunghi. La sua chioma crespa e secca non supera mai i dieci centimetri. Eppure usa un sacco di creme per capelli, che compra da Charlotte, la cota nigeriana proprietaria di un salone di acconciature africane nel quartiere dei Pâquis. Charlotte le promette una crescita miracolosa. I capelli della mamma, però, puoi metterci pure il fertilizzante, non crescerebbero.
A me non piace vedere i capelli crespi piccoli-piccoli della mamma. La preferisco con i lunghi capelli lisci. Sono più belli, più sexy. Trovo che i capelli finti le conferiscano il dolce portamento occidentale che ha sempre cercato di avere, anche se continua a darsi quelle arie da principessa bantu.
Dopo lunghi minuti di attesa, mia madre alla fine riprende a raccontare la storia del suo viaggio. Mi metto in una posizione più comoda sul pouf e tendo bene le orecchie per non perdermi nulla. Lei torna sulle ragioni che hanno spinto lo zio a falsificare la sua età.
Mi dice che in quella giornata della stagione secca, davanti all’Ufficio delle migrazioni di Douala, ascoltava attentamente quel padre di un fratello. Come di consueto, faceva la brava e si metteva un paio di mutande sulla bocca non appena lo zio prendeva la parola.
«Questi sono i due uomini che ti aiuteranno ad andartene da qui» aveva annunciato Démoney. «Fa’ tutto quello che ti chiederanno di fare. Obbediscigli come obbediresti a me. Li conosco molto bene e puoi fidarti di loro. I Filantropi-Benefattori sono gente in gamba. Gente affidabile. Me ne hanno dato prova anche oggi. Guarda un po’ tutta quella marea di gente che aspetta disperata sotto questo sole caldo-caldo. Tu, invece, appena arrivata, sei già servita. Non è un privilegio, questo? Beh, è merito dei Filantropi-Benefattori! Non solo ti hanno fatto il passaporto, così, schioccando le dita, ma sono riusciti addirittura a ottenere un visto per te. In questo istante, mentre ti parlo, tu sei già pronta per partire. Ti manca solo il biglietto dell’aereo. I Benefattori se ne occuperanno nelle prossime ore. Ho dato loro tutto il necessario. Si occuperanno di te in tutto e per tutto. Non avere paura».
Dopo la tirata di suo padre, Mbila si era guardata intorno. Aveva rivisto tutta la bella gente in attesa davanti all’Ufficio delle migrazioni. Aveva rivisto la vecchia sdentata sdraiata su una panchina di legno senza schienale che si lamentava di non essere ancora stata ricevuta. Aveva capito di essere davvero privilegiata. D’improvviso, una sensazione di fiducia le era scivolata nel cuore. La sua stima per i Filantropi-Benefattori era già incondizionata. Lo zio Démoney aveva alzato lo sguardo al cielo. I raggi del suo Dio Sole gli erano piombati dritti negli occhi. Nonostante il bruciore, si ostinava a contemplare il suo Dio. L’aveva fissato a lungo. Aveva levato le mani al cielo come se desiderasse ricevere qualcosa da lassù. Qualcosa di invisibile, di mistico. Aveva versato quella cosa sul suo volto. Poi aveva spalancato la bocca come se volesse sbadigliare. Tutt’a un tratto, si era messo a mormorare della roba inudibile all’indirizzo del suo Dio Sole. Gli parlava in bassa. Infastiditi, i Filantropi-Benefattori si erano allontanati di due passi con il pretesto di lasciare padre e figlia da soli nell’addio. Alcuni curiosi, davanti all’Ufficio delle migrazioni, si erano stupiti dei gesti dello zio.
Quanto a Mbila, aveva aggrottato le sopracciglia. La vergogna si dava alla pazza gioia nel suo cuore. Nemmeno lei si capacitava di quei gesti. Magari, si era detta, si trattava di una cerimonia di benedizione. Ma è forse così, in pieno centro, che si fanno quel genere di cerimonie? Voleva urlare a tutti i presenti che quell’uomo strampalato, quell’uomo capace non solo di parlare con il sole, ma anche di ricevere da lui cose invisibili, lei non lo conosceva. Ma non l’aveva fatto. Se n’era rimasta lì, congelata nonostante il solleone.
Lo zio aveva finito di parlare al sole e, di punto in bianco, si era schiarito rumorosamente la gola e si era sputato nel palmo delle mani. Aveva spalmato per bene lo sputo, poi aveva por- tato le mani intrise di saliva alla faccia di Mbila. A me quelle cose fanno senso e il mio viso si contrae alla sola idea, come se avessi ingoiato una camionata di bitter kola. È peggio dei rutti a ripetizione di mia madre. Mentre manifesto il mio ribrezzo, Mbila mi dice: «Figlio mio, se la vergogna ammazzasse, quel giorno lì credo che sarei morta!».
Unta in viso della saliva di suo padre, Mbila aveva stretto le chiappe, perché se non l’avesse fatto avrebbe rischiato di cagarsi addosso dalla vergogna. Sempre più curiosi accorrevano per vedere quel cinema gratuito. Non volevano perdersi neanche un dettaglio di quella stramba cerimonia. Alcuni allungavano la bocca come quando si mastica un chewing-gum. Si indignavano e condannavano la scena, che definivano un atto di stregoneria pubblica. «Adesso le abbiamo davvero viste tutte in questo paese!» esclamavano alcune donne, battendo insieme i palmi delle mani in segno di stupore.
Mbila aveva abbassato il capo. Si chiedeva per quanto tempo ancora sarebbe andata avanti. Per fortuna la sua preoccupazione sarebbe durata poco. Démoney aveva smesso di pregare e si era seduto accanto alla figlia. I curiosi, delusi per la fine dello spettacolo, si erano allontanati uno dopo l’altro, commentando quello che avevano appena visto. Una signora grande quanto un mango aveva tirato i figli a sé: «Chiudete gli occhi, bambini. Qui si aggira il diavolo!».
Mio zio non era sorpreso dalla reazione delle persone. Non le guardava neppure. Si era accontentato di dire a sua figlia:«Mbila, figlia mia, sei benedetta. Il sole e le sue benedizioni ora risplendono sul tuo viso. Conoscerai la felicità e la felicità vivrà con te. Conoscerai il successo e mai il successo ti volterà le spalle. Sei benedetta, figlia mia. Non dimenticare la tua famiglia, eh? Non dimenticare tuo padre, cioè me. Non dimenticare mai le tue origini. Che Dio ti guidi nel tuo percorso e che il sole rischiari il tuo cammino. L’Europa non è facile, lo so, ma tu sei benedetta».
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