Riccardo Romani, l’incipit
Alla fine la racconteranno così la mia storia: c’è un tizio che guida un’auto rubata a tutta velocità. Deve trattarsi di una fuga, solo chi si sente braccato può perdere il controllo lungo una strada così dritta e deserta. Solo un criminale può spingere sull’acceleratore in quel modo.
Questo scriveranno di me sul giornale locale, già me lo immagino. Diranno che ho travolto il recinto della fattoria, con i pioppi che fremevano per il boato. Diranno che è accorso il padrone di casa e che imbracciava un fucile da caccia. Il danno in effetti è grave, i suoi diritti di privato cittadino spazzati via come i tronchi della sua staccionata.
La scena deve avere qualcosa di elettrizzante: da una parte il proprietario pronto a far fuoco, dall’altra il delinquente che, cauto e forse ferito, esce dall’abitacolo e non si sa perché nasconde qualcosa in un sacco. Un comportamento sospetto, tanto che prima ancora di conoscerne le intenzioni, il padrone di casa preme il grilletto accoppandolo senza misericordia. Sia chiaro: è un suo sacrosanto diritto. Non s’invade la proprietà privata alle otto di una domenica mattina senza pagarne le conseguenze.
In casi come questo la polizia arriva e sbriga le formalità direttamente nel soggiorno dell’aggredito, di certo una stanza decorata con stormi di folaghe impagliate. Gli agenti gli chiederanno le generalità e anche un bicchiere d’acqua. L’uomo firmerà un verbale e si calmerà solo quando gli avranno assicurato che sarà la contea a pagare i danni, che manderanno un carro attrezzi per rimuovere l’auto. Per il cadavere bisognerà attendere un medico legale.
«Deve avere pazienza» gli diranno i poliziotti. «È la legge».
Già lo vedo il titolo sul quotidiano locale: TERRORISTA STRANIERO IN FUGA MINACCIA LA POPOLAZIONE: UCCISO.
Sulle minuscole radio locali impazzeranno i dibattiti sull’immigrazione illegale, il giustiziere diventerà un idolo, e prima o poi gli intitoleranno un sentiero di campagna.
È così che la racconteranno la mia storia.
Per fortuna, però, il tizio non ha ancora premuto il grilletto. È come se si fosse essiccato a due metri da me con il fucile dritto alla mia testa.
Ne approfitto per fare alcune precisazioni.
La macchina non l’ho rubata. L’ho regolarmente presa a noleggio, anche se avrei dovuto restituirla da tempo. Di sicuro la compagnia di noleggio mi sta cercando, anche perché la mia carta di credito è bella che defunta. Il problema è che non sanno dove trovarmi perché l’unico recapito di cui dispongono è quello di una ditta che vende palme nel deserto della California, che nemmeno esiste più.
La verità però è un’altra. Io su quella strada mi ci trovavo per caso, per via di un giochino stupido. Osservare una mappa, scrivere una lista di possibili destinazioni e ripetere ad alta voce il nome della meta.
Palestine.
Palestine.
Palestine.
Di andare a Palestine l’avevo deciso in un ristorante, dove un jukebox suonava una vecchia canzone di Billy Ocean. La cameriera mi aveva chiamato «tesoro» con divertito compatimento.
Le ho chiesto se c’era mai stata a Palestine, e quella ha risposto che nemmeno Gesù ci si sarebbe fermato in quel posto.
Palestine.
Palestine.
Palestine.
In lizza c’erano Nacogdoches, ma mi sembrava uno scioglilingua malriuscito, e Waco, nome troppo corto, faceva pensare che non ci fosse nulla da vedere.
E allora Palestine.
Non sono mai stato bravo a interpretare i segnali. Eppure, a dispetto del gelo mattutino, quando sono partito ero euforico, eccitato per cose stupide come la bruma che copriva i fossati o i cartelli stradali crivellati dai proiettili.
La strada, una retta fiancheggiata da pioppi come ufficiali in rassegna, mi faceva sentire sicuro. Tutt’attorno piccole fattorie col camino fumante, odore di sterco e cani irrequieti al di là della rete metallica.
Dopo settimane vissute senza un attimo di sosta, era lo scenario ideale per tornare a riflettere, anche se con novantasette dollari in tasca Palestine poteva rappresentare davvero il capolinea.
Si comincia un viaggio indicando un punto sulla mappa e quando quel viaggio termina la mappa è scomparsa, a questo stavo pensando quando il cielo si è oscurato. È seguita una pioggia fulminea e formidabile. Prima è caduto un pezzo giallo di lamiera di almeno una trentina di centimetri di diametro. Ha colpito il fanale destro producendo una breve fiammata e poi è ruzzolato nel fossato. Poco dopo è toccato a una piastrella bianca planata direttamente sul cofano. Con l’impatto ho perso il controllo e sono uscito di strada, abbattendo il recinto e fermandomi di fronte a un platano.
Poi è piovuto un braccio. Un braccio umano. Ha prodotto un suono diverso, un colpo di tamburo. Il cofano s’è ingobbito appena e il braccio è rimasto lì, inerme, con l’indice puntato verso di me, il resto della mano annerita, il mignolo mozzato e tracce di sangue rinsecchito fino al gomito.
Palestine.
Per qualche istante ho presagito l’imminente atterraggio del resto del corpo, e mi sono chiesto che rumore avrebbe fatto. Ho chiuso gli occhi come il bambino che attende il conficcarsi dell’ago.
È allora che il fischio all’orecchio ha ripreso vigore. Era rimasto calmo per quasi tutta la mattina. Ho urlato fino a sentire male alle tonsille.
Non è caduto più nulla. Il silenzio s’è fatto irreale. Ho afferrato la sacca della lavanderia sul sedile posteriore, sono uscito dalla macchina, ho preso il braccio con cautela, l’ho ficcato dentro e ho fatto un nodo stretto.
È in quel momento che è apparso l’uomo, con la camicia a scacchi e il suo fucile. Ho alzato le mani lasciando scivolare la sacca a terra.
«Cosa c’è lì dentro?».
«Niente».
«Cosa hai rubato?».
«Non ho ruba—».
«Non ti muovere. Non fiatare».
Non mi sono mosso, non ho fiatato. Ho solo cominciato a pensare a come avrebbero raccontato la mia storia. A come avrebbero rovistato nel mio passato, a mio padre, a Senida e a tutto il resto.
Con l’uomo che mi fissava, ho appoggiato la schiena all’auto e ho emesso un profondo respiro. Il fischio è aumentato.
Oltre le spalle del mio guardiano, in lontananza, vedo la piastrella che ha colpito l’auto. È ancora fumante. Seguo con lo sguardo i solchi della frenata e mi rendo conto dei danni. La bandiera americana che ho divelto è uno straccio di fango.
A ridestarmi sono le sirene della polizia, sempre più vicine. L’uomo ha rinsaldato la presa del fucile. Altra gente armata può essere di sollievo, oppure la catastrofe.
Non è però la polizia ad arrivare, ma uno strano furgone giallo sormontato da sirene rosse e arancioni. Scendono due tizi protetti da un’ampia tuta bianca e maschere antigas appuntite. Mi ricordano i licaoni che ho visto sul libro di scienze.
I due si precipitano sulla piastrella, le radiotrasmittenti gracidano in lontananza; con circospezione quei due stendono un telo di plastica sull’oggetto inglobando un po’ di fumo. Dopo un lungo consulto si avvicinano a noi. Si fermano a qualche metro e ci osservano. Non sono armati, appesi alle loro cinture ciondolano strani strumenti. Potrebbero essere caduti dal cielo pure loro. Quello alto intima all’uomo di abbassare il fucile e lui ubbidisce bofonchiando «l’ho visto rubare qualcosa». Gli indica la sacca della lavanderia ai miei piedi. I due si scambiano uno sguardo mentre raccolgo il sacco. Quello che s’è mosso per primo, a gesti, mi esorta a mostrargli il contenuto.
Dopo che l’ho fatto, percepisco una vibrazione dietro lo scafandro. Il tizio arretra aprendo la feritoia della maschera.
«È lui».
Il compare si avvicina per controllare. Solleva la porticina che gli protegge la bocca e si rivolge a me, annuendo.
«Che volevi farne?».
«Niente» rispondo con foga. «Mentre guidavo mi è caduto addosso quel coso laggiù, anzi no, prima è arrivata quella lamiera gialla, poi la piastrella che avete coperto, io ho perso il controllo e sono finito fuori strada. Appena ho sollevato la testa dal volante il braccio è piombato sul cofano».
Non credo di averli convinti.
«…».
«…pensavo si potesse riattaccare». Non posso vedere le loro espressioni.
Silenzio.
Quello più alto mi dice: «Fammi vedere dov’è caduto il primo pezzo».
«Là, dopo la curva».
Mi chiedono di accompagnarli, l’uomo col fucile si accoda contrariato. Seguiamo le tracce della frenata. I due passano al setaccio il fossato fino al ritrovamento. È un contenitore metallico circolare delle dimensioni di una pizza. Ha quattro cifre illeggibili stampate sopra ed è tutto abbozzato.
I due si abbracciano. Quello più basso mi rifila una pacca sulla spalla. «Grazie. Grazie, davvero».
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