Muhammad Ali, la vita di Jonathan Eig. Un estratto
«C’è molto, c’è tanto, c’è tutto in Muhammad Ali, la vita di Jonathan Eig. La vita, appunto. Ma anche vizi privati e pubbliche virtù. Fuori e dentro il ring. E c’è soprattutto la cronaca della sua condanna a morte. Perché i simboli quando sanguinano fanno gridare al miracolo e non al dolore» come scrive Emanuela Audisio su Il Venerdì di Repubblica.
Pubblichiamo un estratto del libro, tradotto da Lorenzo Vetta. Buona lettura!
In un tardo pomeriggio dell’ottobre 1954, il dodicenne Cassius stava pedalando con un amico nel centro di Louisville, il fratello appollaiato sul manubrio, quando una pioggia improvvisa li costrinse a cercare riparo. I tre si infilarono a tutta velocità nel Columbia Auditorium, al 324 South della Quarta Strada, dove il «Louisville Defender», il giornale locale dei neri, aveva sponsorizzato una Fiera della casa. Era un salone delle meraviglie, con le ultime innovazioni in fatto di casalinghi, e i visitatori potevano vincere diversi premi, tra cui un fornello Magic Range, un ferro da stiro a vapore della Hoover e un giradischi Rca Victor. Negli anni Cinquanta, in pieno boom economico e con le nuove tecnologie che rendevano i mestieri domestici un po’ meno gravosi, le famiglie nere cercavano di acquistare gli stessi splendidi apparecchi che i bianchi esibivano in televisione o nelle pubblicità sulle riviste. Cassius non era interessato agli aggeggi da cucina più recenti, ma la fiera offriva un rifugio dal temporale, e i ragazzi furono ben felici di trangugiare popcorn e caramelle distribuiti gratuitamente.
Piovve tutto il pomeriggio, e quando verso le sette di sera i tre decisero di andarsene stava ancora diluviando. Una volta fuori, scoprirono che le loro biciclette erano sparite. Corsero su e giù per l’isolato, in cerca dei ladri. Cassius iniziò a piangere, «terrorizzato» disse «dalla possibile reazione del padre».
La bicicletta era stata un regalo di Natale: una Schwinn Cruiser Deluxe, rossa e bianca, con parafanghi e cerchi cromati, gomme a fascia bianca e un enorme faro rosso a forma di razzo. Costava sessanta dollari, l’equivalente di cinquecento odierni. I Clay non potevano permettersi di comprare una bicicletta a entrambi i figli, e così Rudy e Clay avrebbero dovuto in teoria condividerla, un accordo che il secondo fece di tutto per ignorare.92 Per un ragazzino che viveva in una delle case più piccole dell’isolato, indossava vestiti di seconda mano, prendeva tra i voti più bassi della classe e fino a quel momento non si era ancora distinto come una delle stelle sportive della sua comunità, la bicicletta era un regalo raro e magnifico: uno status symbol, probabilmente l’unico che aveva.
Qualcuno consigliò ai ragazzi sconvolti di denunciare il furto al poliziotto che si trovava nel seminterrato dell’auditorium. E così i tre schizzarono a tutta velocità all’interno dell’edificio, quindi si precipitarono giù per le scale. Lì trovarono Joe Elsby Martin, un agente bianco, pelato e col nasone, che faceva l’allenatore di boxe a tempo perso. In quel momento Martin non era in servizio. Era lì ad allenare un gruppo di pugili dilettanti, neri e bianchi, in gran parte adolescenti. Per un giovane come Cassius, quella palestra aprì un mondo e appagò un bisogno. La stanza larga e bassa, l’odore intenso di sudore, il suono martellante dei guantoni contro i sacchi, contro i corpi, un luogo dove un ragazzo poteva comportarsi in maniera violenta con l’approvazione di un adulto premuroso, dove le regole ferree e ingiuste del mondo esterno scomparivano. Tutto ciò affascinò Cassius Clay. Ricordava di essersi sentito così travolto «da farmi quasi dimenticare la bicicletta».
Cassius era infuriato – «più scoppiettante di un petardo» secondo Joe Martin – e ripeteva di voler trovare la persona che gli aveva rubato la bicicletta e dargli una bella ripassata.
Martin ascoltò con calma. Era un uomo alla mano che in servizio passava gran parte del tempo a svuotare i parchimetri. I suoi colleghi lo chiamavano per scherzo «Sergente», perché in oltre venticinque anni di servizio non si era mai degnato di dare l’esame per diventarlo. Era felice di camminare di pattuglia di giorno e allenare giovani pugili di sera. Inoltre, produceva un programma televisivo chiamato Tomorrow’s Champions, trasmesso il sabato pomeriggio sul canale locale WAVE-TV.
Martin osservò Cassius in tutti i suoi quaranta chili, e gli chiese: «Sai combattere?».
No, rispose lui. Si era battuto con il fratello e di tanto in tanto veniva alle mani per strada con i coetanei, ma non si era mai allacciato un paio di guantoni.
«Bene,» disse Martin «allora perché non vieni qui e cominci ad allenarti?». Il destino è una questione di caso e scelte. Fu il caso a spedire il piccolo Cassius Clay nella palestra di Joe Martin, ma sarebbe stata una scelta a riportarlo lì. Ad attrarlo non era solo il pugilato di per sé. Era sempre stato convinto della sua forza e della sua bellezza. Era sempre andato alla ricerca di attenzioni. E aveva già compreso che la scuola non lo avrebbe aiutato a conquistare ricchezza e fama. Ma la boxe? La boxe era sempre stato uno sport che allettava le persone desiderose di uscire da una situazione di stallo.
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