Un breve estratto dalla prefazione di Wole Soyinka per Migrazioni/Migrations, a cura di Alessandra di Maio, un volume nato da un progetto dello stesso Soyinka, realizzato grazie al contributo di sedici poeti nigeriani e altrettanti italiani (con un ricco apparato fotografico e due dipinti donati da Dario Fo).
Che si tratti di antiche dinastie cinesi, di regni africani o di monarchie europee, la storia dell’esilio e quella dell’asilo sono sempre state intrecciate. Di conseguenza, la condizione dell’individuo che vi si trova coinvolto è rimasta immutata, e ancor di più quella dei gruppi di individui che, per varie ragioni storiche o a causa di un semplice coefficiente di diversità, sono sviliti a potenziali capri espiatori nei periodi di carestia, di epidemia e persino di fenomeni naturali straordinari – strani presagi nel cielo, siccità estrema o alluvioni. Di fatto, l’attenzione posta su questi gruppi serve semplicemente a distrarre dalla realtà del malgoverno e della cattiva amministrazione; o ancora, i gruppi in questione costituiscono un elemento impuro rispetto alla concezione che ha di sé una data comunità, facendosi espressione delle sue tendenze xenofobe. Si tratta di gruppi di individui ripudiati, spodestati e lasciati a vagabondare sulla superficie terrestre. È una sventura che continua ancora oggi, nonostante l’articolo 9 della Dichiarazione universale dei diritti umani reciti:
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
Se si vuole rintracciare, a questo riguardo, un modello positivo in ambito mitologico, si può prendere in esame Orunmila, il dio della divinazione degli yoruba dell’Africa Occidentale. Orunmila era famoso per il suo spirito vagabondo. Forse era proprio questo suo amore per gli spostamenti, il suo continuo muoversi da un posto all’altro, a renderlo così edotto. Magari era proprio per questo che riusciva a calarsi con tanta profondità e perspicacia nella condizione umana. Ifa, il corpus di narrazioni che raccoglie le divinazioni tradizionali yoruba, racconta che durante una delle sue peregrinazioni – penitenza inflittagli per aver commesso un’infrazione, poiché neanche gli dèi sono dispensati dal dover riparare ai propri errori né dal trauma dell’espatrio – il dio, con addosso niente di più che qualche straccio da mendicante, vagando fra terre straniere, bussò a una porta dietro l’altra in cerca di rifugio, con risultati facilmente immaginabili. Alla fine, fu una donna che abitava ai margini della città – un’emarginata come lui – ad accoglierlo. La buona ventura, come prevedibile, giunse sulla casa che lo aveva accolto e così si concluse quel periodo del pellegrinaggio di Orunmila.
Episodi mitologici simili riecheggiano nei numerosi miti intessuti dai vari popoli allo scopo di stabilire un ethos di condotta che, si ritiene, rifletta le proiezioni più elevate dello spirito umano. Si tratta semplicemente di una maniera di codificare concetti che trascendono la norma, traguardi etici verso i quali l’umanità sente di potere aspirare e che sono perciò serbati come sacri e trasmessi alle generazioni future. Non si tratta di valori dettati dal capriccio del momento. Scaturiscono da esperienze precedenti. In altre parole, i miti derivano dall’osservazione e dall’esperienza, e stabiliscono paradigmi secondo i quali gli esseri umani giudicano le proprie debolezze, espandono i propri orizzonti e si sforzano di evolversi verso livelli più elevati di coscienza morale. Nel mito di Orunmila, o nello zelo del dio cristiano che, dopo aver espulso Adamo ed Eva, si occupa comunque del loro benessere, è racchiuso il fondamento delle ingiunzioni etiche che, anni luce più tardi, sarebbe stato consacrato come principio e dovere nell’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani:
Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.