Merckx, il Figlio del tuono

Il 20 marzo 1966, un giovane belga si schiera al via della Milano-Sanremo. Ha vent’anni, indossa la maglia bianca a scacchi neri della Peugeot, e non si è mai misurato con un tracciato così lungo e impegnativo. Il suo nome è Eddy Merckx, «un groviglio di consonanti», un nome misterioso e impronunciabile. Al traguardo, dopo 288 km di corsa, quel ragazzo brucerà i migliori allo sprint e conquisterà la prima classica del suo palmarès. Quel giorno – com’era accaduto con Coppi, che aveva trionfato nella prima Sanremo del dopoguerra – per il ciclismo si apre una nuova èra.

Meno di due anni dopo, a Herleen ’67, il giovane belga vestirà anche la maglia iridata. Nel ’68 vincerà la sua prima grande corsa a tappe, il Giro d’Italia, sbarazzandosi di Gimondi e degli altri italiani. Nel ’69, al debutto al Tour de France, entrerà a Parigi in maglia gialla poche ore prima che Neil Armstrong metta piede sulla Luna. Il secondo si trova staccato di oltre diciassette minuti. Dopo Merckx, nessuno vincerà con un margine così ampio; prima, bisogna tornare indietro a Bartali e Coppi. Al termine di una carriera folgorante, Merckx avrà messo insieme un palmarès ineguagliabile, gareggiando su strada e su pista: undici grandi giri, tra campionati del mondo, trentadue classiche, oltre quattrocento vittorie da pro. Lo chiameranno «il Cannibale», «l’Orco», «il Coccodrillo», «Attila», per spiegare la sua fame insaziabile di traguardi, la furia devastatrice con cui dominava le corse. Temuto e invidiato, è stato «il più grande agonista che il ciclismo, o forse lo sport tutto intero, abbia mai conosciuto» – come ha scritto il giornalista Bruno Raschi, che ha anche coniato il soprannome più bello, «il Figlio del tuono», durante la prima avventura di Merckx al Giro, nel 1967.

 

Eppure la storia di questo atleta impareggiabile non può essere racchiusa solo nelle classifiche e negli ordini d’arrivo, in quei numeri straordinari che segnano la distanza tra lui e tutti gli altri. La sua storia sportiva – scritta sul pavé e nel fango del Nord, sotto la pioggia e la neve delle Alpi, sulle pietraie infuocate dei Pirenei – ha diritto di entrare «nella sconfinata biblioteca della bicicletta accanto a quella di Coppi». È una storia punteggiata anche di sconfitte, di delusioni, di cadute rovinose, come quella sulla pista di Blois che mise a repentaglio la sua vita e modificò il suo assetto, trasformando in tortura la gioia di correre in bicicletta. È una storia fatta di trappole e tranelli, come quello che porterà alla squalifica di Savona, al Giro del ’69, quando fu trovato positivo al controllo antidoping. Di ostilità e inimicizie, soprattutto con i corridori belgi – prima Van Looy, poi Godefroot, De Valeminck, Maertens – che cercheranno in tutti i modi di allearsi per spezzare la sua egemonia, succhiandogli la ruota, provando a innervosirlo, accerchiandolo (pur di vederlo perdere). È una storia di successi straordinari nobilitati dai duelli con rivali di grande classe – Anquetil, Gimondi, Ocaña, Fuente, Moser – che lo hanno più volte sfidato a viso aperto, senza paura di soccombere, di essere divorati dall’Orco.

Fin da quella prima, memorabile apparizione alla Sanremo del ’66 – esattamente cinquant’anni fa –, Merckx ha mostrato di possedere, oltre al talento e all’audacia, il gusto dell’avventura e della prodezza abbagliante. Al pari di Coppi, dei grandi del passato, dei pionieri di uno sport arduo, a volte crudele. Ma più di chiunque altro, Merckx ha saputo vivere la gara come «sfida totale», battaglia all’arma bianca. Merckx è l’interprete implacabile di un ciclismo d’assalto, non ingabbiato dai tatticismi e dai calcoli, è l’inventore della «corsa di testa» – con cui ha riportato il ciclismo alla sua vocazione originaria. La sua concezione rivoluzionaria dello sport, ha scritto Antoine Blondin sull’«Équipe», «non è altro che un pellegrinaggio alle sorgenti della competizione dove s’abbeverano i migliori».

Attingendo alle ricchissime cronache del tempo, in primo luogo all’archivio prezioso della «Gazzetta dello Sport», Claudio Gregori ricostruisce per la prima volta in modo completo la carriera di Merckx, dall’esordio alla corte di Van Looy all’eclissi improvvisa, raccontandoci le sue imprese con il lirismo di un cantore d’altri tempi, come fosse in sella a una moto del seguito – ritraendo il campione belga come il cavaliere impavido di una chanson de geste, a caccia di tesori favolosi sulle strade d’Europa (e d’America). O come il valoroso guerriero di un’Iliade dagli echi «buzzatiani». Ma anche come un uomo ipersensibile e ossessionato dalla perfezione, che rimedita le sconfitte e dimentica le vittorie. E nel comporre questo ritratto a tutto tondo di Merckx, l’autore ripercorrere quarant’anni di storia non solo sportiva, dalle ferite della guerra mondiale al Vietnam, dal boom economico alla contestazione – quel mondo, insomma, che le corse attraversano e sfiorano, e da cui a volte sono condizionate.

In cinquecento pagine di narrazione vibrante, accuratamente documentata, ricca di digressioni acute e sorprendenti, Gregori riesce a riannodare i fili di tante altri personaggi, dai corridori del passato agli avversari di Merckx, protagonisti al di fuori della strada di vicende umane affascinanti e tragiche (come il seducente Anquetil, l’irascibile Ocaña, lo sfortunato Simpson), fino ai numerosi cantori del ciclismo che hanno glorificato le gesta di Merckx – Raschi e Blondin su tutti, ma anche Fossati e Brera, Mura e Ormezzano. E ci restituisce così intatti l’epica e l’incanto delle gare, la giostra dei distacchi, le «fughe matte», gli inseguimenti spericolati, le cotte e le crisi di fame, «il frinire delle ruote» e il «salmodiare della catena» su per le vette maestose dove un uomo solo si batte fiero contro un plotone di avversari – o forse contro sé stesso, inseguendo la leggenda di Fausto.