Essere campioni è un dettaglio
In occasione dell’uscita in libreria di Un giorno triste così felice, il viaggio di Lorenzo Iervolino nella vita e nel pensiero di Sócrates Brasileiro, riproponiamo lo splendido documentario Ser Campeão é Detalhe, «Essere un campione è un dettaglio», pubblicato da fútbologia con i sottotitoli in italiano a cura di Dante Di Domenico. Un’occasione per ritrovare i volti e le voci di molti dei protagonisti del libro di Iervolino e anche per riascoltare, come suggeriscono gli amici di fútbologia, l’inno del mitico Corinthians.
Sempre in tema di ascolti, l’uscita di Un giorno triste così felice è anche il pretesto per riproporre un grande classico della musica brasiliana, Andar com fé, il samba di Gilberto Gil che scandisce uno dei momenti più emozionanti del libro: l’entrata in campo dei giocatori del Corinthians nella finale di andata del Paulistão contro il São Paulo.
È la sera dell’8 dicembre 1982, a San Paolo l’aria è umida, la temperatura è alta e lì nello spogliatoio quasi non si respira. Oppure l’aria è tiepida, la temperatura mite, e sono i polmoni dei giocatori del Corinthians a non riuscire a respirare, contratti come spugne marine essiccate a riva, in quell’attesa che vale molto più di un campionato. Wladimir ascolta i consigli dell’ex capitano Zé Maria, che aiutandosi con le dita delle mani aperte gli mostra come coprirsi dal contropiede. Alfinete, che lo ha sostituito dall’inizio del campionato, mastica che pare un cavallo, ma le orecchie non gli si stappano come vorrebbe; oppure, anche per lui i sensi sono impazziti, non rispondono più alla razionalità, agli stimoli nervosi che hanno deciso di sottostare all’atmosfera rarefatta, in cui nessuna lancetta sta effettivamente girando, nessun centilitro di sangue entra o esce dai ventricoli. Eppure là fuori il tifo sugli spalti del Morumbi, oggi casa del São Paulo, fa già tremare ogni dubbio sulla realtà di quell’attesa.
«È ora. Ragazzi, si va in campo!».
La fila si compone. Stavolta il silenzio fischia nelle orecchie dei titolari, seguiti dalle riserve e dallo staff dei sanitari. Sócrates prova a deglutire, ma in bocca sente il deserto. Il cuore accelera il battito a ogni passo e immagina che per gli altri sia lo stesso. Intanto si intravede il tunnel che dà sul campo. Le maglie rosse degli avversari sono comparse davanti a loro come spettri. Spettri distanti, che però fanno già paura. Sócrates respira, immagina il suo corpo congelato, vorrebbe non sentire nulla, isolarsi completamente.
«Andá com fé eu vou / Que a fé não costuma faiá».
Su quel campo, tra poco, si gioca la credibilità di un anno di lotte, di fatiche, di sfide. Per lui, in fondo, anche i giocatori del São Paulo, tutti i giocatori brasiliani, sono parte della stessa squadra. Ma il Corinthians ha bisogno di vincere per continuare a essere la Democrazia corinthiana.
«Andá com fé eu vou / Que a fé não costuma faiá».
«Ma che…?». Sócrates gira rapidamente la testa, per un attimo gli è era sembrato di essersela sognata. E invece quella voce è reale, si è levata da una gola e da un cuore che lui conosce bene, un suono per il quale ha un rispetto profondo. Saci!, pensa. Poi vede la bocca spalancata di Wladimir e anche le mani del Magrão iniziano a seguire quel ritmo.
«Andá com fé eu vou / Que a fé não costuma faiá».
E a loro due si aggiunge subito qualcun altro, altre voci si annodano e crescono, mongolfiera che si gonfia nel petto, nel punto della nostra immaginazione da cui prendiamo la forza per volare.
«Andá com fé eu vou / Que a fé não costuma faiá».
Adesso è tutta la squadra – massaggiatore, medico, riserve e accompagnatori – a cantare.
«Andá com fé eu vou / Que a fé não costuma faiá».
Gli avversari non capiscono, si guardano tra loro. I giocatori del Corinthians ora saltellano, ma più che scaldare i muscoli stanno ballando, perché ogni battaglia ha il suo rituale e quello innescato da Wladimir esorcizza ciò che lo psicologo Flávio Gikovate ha definito paura della felicità. E così entrano in campo, gli idoli dei Gaviões da Fiel, cantando allegri, spavaldi. Andando con fede, perché la fede – come recita la canzone di Gilberto Gil – di solito non sbaglia.
Forse è proprio la fede, lontana da ogni religione codificata, la fede nella magia del quotidiano, di una risata, di una donna, nella naturalezza della morte, a far cadere il pallone sul piede sinistro del Doutor al quindicesimo del secondo tempo, quando i cartellini gialli, le entratacce e i continui scontri stanno rendendo la partita un groviglio di gesti inconclusi. Il corner di Eduardo sfiora solo la testa di Ataliba che in quel modo, però, mette tutti fuori tempo. Sócrates d’intuito allarga il piatto sinistro, il tiro esce sporco, rimbalza davanti al portiere del São Paulo e della Seleção Waldir Peres e si trasforma nel gol partita. Il pugno chiuso si solleva ancora una volta, nel cielo esplosivo del Morumbi.