La custodia dei cieli profondi di Raffaele Riba. Un estratto
Gabriele è un uomo che parla dal limite dei giorni, dei suoi e forse di tutta la sua civiltà. In cielo è comparsa una seconda stella, l’equilibrio circadiano è sconvolto, gli uccelli cadono, i fiori anneriscono e, davanti alle cancellate chiuse di Cascina Odessa, cominciano a presentarsi strani personaggi provenienti dal vicino paese di Lurano, o forse da un luogo che coincide con la fine del mondo. Cascina Odessa, il posto in cui ora Gabriele è barricato, è anche il perimetro affettivo di tutta la sua vita: lì è cresciuto con il fratello Emanuele, con i propri nonni e i genitori, ed è un luogo che ha continuato ad amare e a difendere anche quando è diventato il teatro di una veloce disgregazione familiare.
È uscito da pochi giorni in libreria La custodia dei cieli profondi, il nuovo romanzo di Raffaele Riba.
Questo libro «ha tutto lo spessore di un progetto alieno, come se ci trovassimo di fronte all’immaginario neorealista e apocalittico insieme dello Stalker di Tarkowski», ha scritto Marcello Fois, nella recensione uscita su La Stampa.
Qui di seguito trovate un piccolo estratto del libro. Buona lettura!
Ho abitato a Cascina Odessa per più di trent’anni, salvo qualche breve intervallo. Io derivo da questo posto, e per ogni cosa fatta dopo sono partito da qui. Se scavassi nel terreno, se facessi il lavoro di mio nonno al contrario, probabilmente troverei una stratificazione di sedimenti diversi. Qui sono passati adulti, bambini, animali, alberi. Qui sono morte due persone della nostra famiglia, sette cani, due gatti e poi chissà. Insetti, uccelli, bisce d’acqua, foglie, alla ricerca dell’equilibrio chimico, della dissolvenza.
Voglio solo dire che la casa è pelle, che la casa è cognizione, che la mia casa è un modo che ho per dire qualcosa di me.
Il primo nome che mi hanno dato è Gabriele, una mattina di aprile del 1980, ma è accaduto spesso che quel nome si sia disperso in un marasma di altri meno evidenti. All’inizio mi hanno chiamato figlio, poi fratello, poi il Custode; infine l’Eremita o il Matto. È stato un processo lento e graduale, questo disperdersi verso il non me, come se tutte le persone che ho conosciuto avessero prima o poi preso un treno e, affacciati ai finestrini, mi avessero salutato allontanandosi. È un fatto che le loro voci non solo si siano abbassate di volume e poi perse nel viaggio, ma che anche la semantica dei nomi usati per salutarmi si sia allontanata via via, diventando più rarefatta, più impersonale. Dall’essere chiamato figlio e fratello all’essere additato come matto, la prossimità è diventata deserto.
Andati via tutti, alla stazione di partenza non c’ero più nemmeno io.
Adesso, infatti, vedere cosa sono stato e quale stravaganza le persone si inventeranno per indicarmi da lontano non è più possibile. I soli ballano, c’è un senso di fine. Sotto di loro i fiori di tarassaco non si chiudono, gli insetti e gli animali notturni escono per mangiare ma finiscono ammazzati da qualche predatore diurno. Tordi e poiane volano su una benedizione che ha sconvolto il ciclo circadiano. Infatti li si vede sfiancati. La luce continua, la notte non arriva, gli animali non dormono, io non posso più fischiare per far tacere i grilli. Mi facevo compagnia così.
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