Intervista a Massimiliano Boni
Vi proponiamo questa intervista di Raffaele Riba a Massimiliano Boni, di cui esce oggi – 19 gennaio 2017 – il terzo romanzo, Il museo delle penultime cose.
Il museo delle penultime cose ha un’idea alla base che ho trovato forte e coinvolgente ancora prima di leggere il libro, ti va di raccontarcela?
Si tratta di questo: è possibile parlare della Shoah dopo tutta la letteratura (soprattutto la grande letteratura) che è stata creata al riguardo? Se ne può parlare in modo nuovo? Se ne può parlare dal punto di vista, per così dire, della terza generazione (quella che viene dopo i testimoni e dopo i loro diretti discendenti)? Io avevo questa urgenza, questo assillo quasi. Riuscire a trattare la Shoah, ma senza ripercorrere il passato, con la massima cautela per il rispetto che si deve ai testimoni oggi superstiti, e cercando di coinvolgere il lettore, facendogli sentire l’attualità del tema. Insomma, volevo cercare di scrivere della Shoah non in modo retrospettivo. E allora ho inventato una storia che fosse ambientata nel futuro. Che succederà quando l’ultimo testimone non ci sarà più? Questa è stata la domanda d’avvio. Da qui è nato il romanzo.
Che fascino e che rischi narrativi può avere giocare con la Storia?
I rischi sono evidenti. Avendo proiettato la storia tra il 2030 e il 2031, non potevo né creare un futuro fantascientifico, né lasciarlo troppo schiacciato sul presente. Quindi ho provato a trovare una mediazione. Non so se la cosa ha un fascino, ma ho provato a offrire al lettore un futuro in cui ancora riconoscersi, e dove però si avverta che qualcosa è cambiato. Dove ciascuno di noi possa ritrovarsi, seppure più maturo, o semplicemente invecchiato. Un futuro dove possa affacciarsi e pensare che sì, forse le cose potrebbero andare proprio in quel senso. Soprattutto, mi interessava introdurre l’argomento dei superstiti. Come staremo, tutti noi, dopo che l’ultimo sopravvissuto della Shoah avrà cessato di testimoniare, con la sua vita, quello che è stato? Come ci sentiremo, come continueremo a trasmettere il testimone? Pacifico Lattes, il vicedirettore del museo della Shoah, è un personaggio che rappresenta in pieno questa crisi. Ha collezionato migliaia di testimonianze, e ora si culla con l’idea che il lavoro sia finito. Quando scopre che forse non è così, deve rimettersi in gioco. Credo che tutti noi siamo Pacifico, perché, dopo l’ultimo testimone, ciascuno di noi dovrà decidere, per così dire, come posizionarsi rispetto alla Shoah. La catalogheremo come un ricordo del passato, o riusciremo ad avvertirne la costante attualità, l’impegno di continuare a ricordare e a riflettere ma senza scadere negli stereotipi? Il rischio già oggi mi sembra evidente.
Per supportare questa idea hai dovuto ambientare la vicenda nel 2031. Che Italia trova il lettore?
Ho cercato di lavorare su due piani. Il primo è quello dei dettagli. Non credo che questo paese tra quindici anni sarà profondamente diverso da oggi, per una sua arretratezza di fondo che non lascia immaginare chissà quali rivoluzioni tecnologiche. Ho introdotto però piccoli oggetti quotidiani (ad esempio il sound tree, un oggetto montato alle fermate degli autobus, o agli incroci principali, che dà notizie, musica, informazioni varie; nuovi manifesti elettronici e interattivi; pc di ultima generazione in grado di rappresentare immagini tridimensionali a richiesta) che dessero il senso del cambiamento. L’altro piano su cui ho lavorato è quello sociale e politico. Che Italia sarà quella del domani prossimo? Da un lato ho deciso di scommettere su un elemento di continuità con il presente, dall’altro di introdurne uno di novità e di rottura. È nato così lo scontro politico tra il Renzi che conosciamo e un soggetto nuovo, Cacciani, leader di un movimento populista. La dinamica politica in effetti fa da sottofondo al romanzo, perché serve a introdurre il tema dell’antisemitismo. Purtroppo immagino che il prossimo futuro ci metterà ancora a confronto con il pregiudizio antiebraico. Anzi, temo che, dopo la scomparsa dell’ultimo testimone, occorrerà attendere qualche ulteriore rigurgito. Lasciami dire però che ciò che mi è più caro di questa Italia del futuro è il museo della Shoah di Roma. L’ho descritto sulla base del progetto già esistente, cercando di rimanerne il più possibile fedele. Mi rendo conto che oggi esiste già una realtà importante, come il museo dell’ebraismo e della Shoah di Ferrara (Meis), ma ho sempre creduto che un museo del genere a Roma avrebbe un impatto simbolico ben più forte. Solo da Roma sono scomparsi nella Shoah quasi la metà degli ebrei italiani. Il museo è forse la cosa che, dell’Italia futura, ho più nostalgia.
Attilio è un personaggio magnetico, pur disvelandosi molto lentamente. Come hai lavorato per centellinare la conoscenza che il tuo protagonista (e di conseguenza il lettore) fa di lui?
Attilio in effetti è il carburante del romanzo, il nucleo radioattivo che dà energia e mette in moto tutti i personaggi, ma che rischia anche di bruciare chi si avvicina troppo a lui. Il suo carattere era da un lato scontato, dall’altro imprevedibile. Dico scontato perché se proviamo a immaginare un uomo che per tutta la vita si nasconde, è evidente che non deve essere molto estroverso e aperto. Ecco allora che l’ho descritto come un uomo taciturno, scorbutico, anche caustico. Sono in molti a farne le spese. Il parroco responsabile della casa di riposo dove vive, i dipendenti che lo accudiscono, e soprattutto Pacifico, quando entra in contatto con lui. Eppure, quest’uomo ha un punto debole: la sua solitudine. Possiamo decidere di vivere nascosti per una vita, ma la scelta ha un prezzo. Attilio sente questo peso, e ormai ne è stanco, vorrebbe che qualcuno venisse a tirarlo fuori dalla sua solitudine. Il problema è che questo silenzio ha una causa ben precisa, seppellita dentro di lui, che Attilio non vuole per nessun motivo che emerga. Sarà questo il compito di Pacifico. Estrarre questa verità dal cuore di Attilio senza farlo soffrire, restituendogli, per quanto possibile, l’umanità che lui crede di aver perduto. Di che segreto si tratti, naturalmente saranno i lettori che decideranno di accompagnare Pacifico fino alla fine a scoprirlo.
Il museo delle penultime cose ha avuto una gestazione molto lunga. Ci racconti la sua storia?
Ho cominciato a riflettere a questa storia circa dieci anni fa. La gestazione è stata lunga per due motivi, credo. Il primo è che avevo bisogno di far crescere ogni personaggio dentro di me in modo adeguato. I dialoghi che il lettore troverà nel romanzo, ad esempio, sono una piccola parte dei tanti monologhi con cui ho cercato di dare voce dentro di me a ogni personaggio, fino a quando li ho visti prendere una forma definita e un carattere ben delineato, che mi soddisfacesse. Il museo delle penultime cose è in fondo anche un romanzo corale, in cui, a fianco di Pacifico e Attilio, ci sono altre figure che certo sarebbe riduttivo definire dei comprimari (penso innanzitutto a Mario, il direttore del museo; a Ester, la moglie di Pacifico; e a don Riccardo, il parroco, grazie a cui la storia si mette in moto). Il secondo motivo è che probabilmente avevo bisogno di maturare anche come autore. Questo è il mio terzo romanzo, e certamente le prime versioni che ho scritto erano molto più acerbe. Vorrei allora ringraziare la casa editrice, ossia il suo editore, Isabella Ferretti, che ha creduto nella forza del romanzo fin da subito; e il prezioso lavoro redazionale fatto assieme a Maria Eleonora Cucurnia. Soprattutto, devo ringraziare Raffaele Riba. Raffaele è stato molto importante, e credo si sia creato subito un buon affiatamento tra noi. Ha avuto per me un ruolo maieutico, come credo ogni bravo editor debba fare. Mi ha consentito di focalizzare i punti nevralgici della storia, e rinunciare senza troppo dolore a pagine che pure erano belle, ma che in effetti rischiavano di perdere la presa sul cuore del romanzo. Il romanzo pubblicato con 66thand2nd sento così che è il migliore che avrei potuto scrivere, e che rappresenti bene questo mio percorso di crescita.
Nell’Italia del 2031 che significato vorresti potesse ancora avere il tuo libro?
Sai, tra gli addetti ai lavori è già avviata da tempo la riflessione su come impedire che il Giorno della memoria rimanga ingabbiato nella semplice commemorazione. Quando non ci saranno più testimoni, io credo che questa giornata potrà sopravvivere a sé stessa solo se riuscirà a narrare l’attualità di quello che è stato, il che significa trasmettere alle nuove generazioni l’assoluta necessità di difendere la dignità e la vita umana, di ogni essere umano; di riconoscere – per citare un autore a me molto caro, Emmanuel Lévinas – il volto del prossimo. Auschwitz è stata la brutale sopraffazione e cancellazione del volto dell’uomo.
Il museo delle penultime cose non ha poi molte pretese. Vuole essere una storia che stia vicino al lettore, che lo faccia immedesimare nel protagonista, che gli dia un po’ di calore, che lo accompagni per un tratto di strada della sua vita. In fondo i buoni libri servono a questo. Anche dopo che li abbiamo chiusi, ne serbiamo sempre un po’ dentro di noi.
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