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Il ring invisibile

Ma la folla, una volta superato l’ingresso, la folla, le correnti della folla: scoppi di voci, disordine, caos. Nella folla non c’è distanza né vicinanza, impossibile misurare qualcosa quella mattina al Louisville International Airport, o in qualsiasi altro luogo di qualsiasi altro aeroporto nei giorni antichi e in quelli a venire: braccia e gambe, neri e bianchi, uomini e donne, giovani e vecchi, grassi e magri, piuma e welter attraversano l’androne in tutti i sensi, spezzano le traiettorie, fanno cozzare le voci, muoiono, resuscitano, si rialzano, vacillano, senza arbitro né gong, al di fuori del tempo regolamentare, gli devastano il ring, non vedono niente, non sanno niente.

Conosce le folle degli incontri di Chicago, Toledo, San Francisco, Madison, ma la folla degli incontri è contenuta negli spalti con gli occhi incollati al centro del ring a cui non si avvicina mai, una folla addomesticata, una folla a distanza. Quella mattina del primo agosto 1960, invece, centinaia, migliaia di voci rimbalzano contro le vetrate dell’androne, crivellano lo spazio, si precipitano giù per le scale e rotolano lungo i corridoi; viaggiatori in partenza gli passano alle spalle con valigie informi, voci urlanti brandite come spade, senza guardia né assenza di guardia, senza astuzie né ingenuità, vicinissimi alle zone del corpo di Cassius che non si possono colpire, la nuca, la colonna vertebrale, i reni, i coglioni non protetti da alcuna conchiglia (Joe Martin gli ha garantito che è del tutto inutile, in aereo). E nessuno lo riconosce, non uno sguardo, un’esclamazione, nemmeno il più piccolo fremito di palpebra, per cui la concentrazione gli si accartoccia, si sbriciola, giace sparsa ai suoi piedi, eppure lui va avanti, va ancora avanti, senza più sentire il ring devastato dai passanti, non percepisce più nemmeno il suo allungo (duecentotré centimetri) né le posture necessarie a colpire il mento o le tempie dell’avversario, mentre Joe Martin avanza calmo alla sua destra, non perde la bussola, lui, non si deconcentra, e allora Cassius prende esempio da Joe Martin, che è abituato alla folla, e chiude gli occhi per ricostruire il ring, pezzi del suo ring invisibile riappaiono rassicuranti, ricostruisce l’angolo neutro e le tre corde tese, la prima a cinquanta centimetri da terra, vede il volto di un arbitro, cerca di ascoltare il suono del gong, insieme sorgente e signore del tempo, ascolta il gong, di colpo ecco il tempo affluire, il tempo rallentato degli incontri, gli immensi secondi in cui viaggiano, millimetrati, impercettibili, colpi e schivate, finte, sopracciglia aggrottate e brandelli d’astuzia, immagina l’intervallo tra due round, si prepara a riprendere fiato, immagina le mani del massaggiatore sulle spalle, ma deve aprire gli occhi, un passante alla deriva gli ha urtato la spalla mentre cercava il volo per L.A. o Detroit o New York City.

Niente gong, niente tempo, niente ring.

(da Il ring invisibile di Alban Lefranc – la biografia immaginaria di Muhammad Ali)

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