Il compleanno di Tommie Smith e John Carlos
66thand2nd celebra il compleanno di John Carlos (74 anni) e di Tommie Smith (75), nati rispettivamente il 5 giugno 1945 e il 6 giugno 1944, con un estratto di Trentacinque secondi ancora e un articolo di Lorenzo Iervolino.
Sembrano brevi due minuti, ma sono interminabili se vissuti immaginando la tua figura completamente esposta al centro di uno stadio olimpico, osservata attraverso il mirino di un’arma nelle mani di un folle. Da quell’ossessiva visuale ristretta, in due minuti puoi vedere la tua vita intera, e sul primo gradino del podio, mentre sopra la sua testa china s’innalza il simbolo della nazione, Tom- mie, la sua vita, se la sente esplodere addosso.
Lui, nato a Clarksville, Texas, il 6 giugno del 1944, il giorno in cui i suoi connazionali bianchi e neri sbarcavano in Normandia fa- cendosi massacrare per quella bandiera, non ha mai voluto sentirsi americano solo quando tagliava per primo il traguardo. «Se vado in giro con i libri sottobraccio la gente mi squadra, lo leggo nei loro occhi che pensano “ehi, guarda quel negro, non gli basta mica solo correre…”».[…] Anche questa è l’America, pensa Tommie con la medaglia d’oro al collo. Anche gli Smith sono americani. Che d’estate boccheggiavano in quel pezzo di legno chiamato casa dormendo in due o in tre nello stesso letto, o per terra, in un angolo della stanza, e d’inverno tutti attaccati, i maschi con i maschi e le femmine con le femmine, per riscaldarsi un po’. Durante le piogge distribuivano secchi dappertutto, visto che il tetto era un susseguirsi di crepe tra le tavole sconnesse, tante volte rattoppate e mai completamente chiuse. Vivere così, ecco un gesto davvero antiamericano, Tommie lo sa per certo. L’ha letto nella Costituzione scoperta in biblioteca al secondo anno di università: la Costituzione dei cittadini americani bianchi e neri. Cittadini americani sono anche i suoi genitori, assenti il giorno in cui Tommie è salito sul gradino più alto dell’atletica mondiale. C’è sua sorella Sally, sua moglie Denise ma né Richard né Mulla. Loro non l’hanno mai visto correre, mai. Anzi, suo padre la prima volta che Tommie gli ha chiesto di lasciarlo andare, ha risposto: «Correre? In che senso, correre?». Dopo le spiegazioni e le insistenze, papà Richard aveva detto: «Va bene, vai pure; ma se arrivi secondo, torni qui a lavorare con noi».
Tommie era poco più di un bambino, allora. E nei campi, qualche volta, c’è tornato, e non perché fosse arrivato secondo. Tommie Smith è un vincente, il recordman dei recordmen, ma per sopravvivere ha ancora bisogno di fare la stagione nelle campagne. La borsa di studio di un atleta nero basta appena per i libri e l’alloggio. Ora è arrivato primo alle Olimpiadi, ha alzato il pugno e abbassato la testa «per gli emarginati, per le donne e gli uomini ancora schiavi dopo la fine della schiavitù». Ha alzato il pugno e abbassato la testa, dice, «per raddrizzare la schiena spezzata di mio padre, per riscattare tutte le sue umiliazioni, i suoi Yes, sir. No, sir. Yes, sir. No, sir» e cancellare la sua rabbia repressa per non potersi sfogare. Una volta Tommie lo accompagnò alla casa del padrone. Era il giorno dell’attesissimo incontro tra Floyd Patterson e Johansson, il peso massimo svedese, che però non poterono ascoltare perché il padrone doveva parlare con papà Richard. Si trattava di una questione spicciola per il lavoro del giorno dopo, o altro che Tommie ha dimenticato. Quel che ricorda è che suo padre «non faceva che ripetere Yes, sir. No, sir anche al figlio del padrone, che avrà avuto si e no dieci anni». Doveva chiamarlo signore, mentre quel ragazzino lo richiamava all’ordine dicendo «Jimmy, così. Jimmy, così no» come si fa con un cane, senza neanche bisogno di promettergli un osso. «Il figlio del padrone della nostra casa, della terra che lavoravamo e dei due terzi del prodotto che ne usciva: loro erano i proprietari indiscussi della nostra dignità».
È a quei giorni che ritorna la mente di Tommie sul podio olimpico. A quei giorni terribili e disumani che non vorrebbe mai rivivere. Ad eccezione di una sola cosa, se ci pensa, una cosa che sente ancora viva e nella quale si rifugia, mentre gli spalti si riempiono del tuono crescente della contestazione: sentir cantare le sue sorelle in quella chiesa, dove con i piedi nudi a ogni passo facevano scricchiolare perfino le assi del tetto. Sentirle cantare assieme alla madre nei campi, l’unico modo per gareggiare contro quella povertà che non potevano neanche afferrare, come i pesciolini nello stagno. Rivivrebbe quei giorni di fame solo per vedere la loro casa decrepita riempirsi di vita grazie alla musica.
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Il pugno chiuso nel guanto nero. I fischi e gli insulti dagli spalti dello stadio della Unam di Città del Messico. La paura, il coraggio. La solidarietà dell’australiano Peter Norman e l’alleanza con John Carlos, anche lui con il pugno conficcato al centro del cielo messicano a sostegno del Black power. Tutto in una sera. Il 16 ottobre 1968. Una sera che ha cambiato decisamente la vita di Tommie Smith, campione dei 200 metri all’Olimpiade messicana, che il 6 giugno compirà 75 anni e torna a farci guardare la foto che la rivista LIFE ha definito la sesta più influente del Novecento. Ma c’è molto che quello scatto non racconta. Personalmente ho impiegato tre anni a cercare di rispondere a tante domande irrisolte, un tentativo dal titolo Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos, il sacrificio e la gloria. A una di queste domande credo valga la pena rispondere anche qui. Cosa accadde dopo? Tommie Smith viene squalificato dalle Olimpiadi, additato come traditore della patria. Continua a studiare, prediligendo i corsi serali apposta per non farsi vedere troppo in giro. Gli viene ritirato il prestito bancario con cui pagava le rate della casa. Dopo pochi mesi si separa dalla moglie, e quando l’anno successivo sua madre muore d’infarto, in tanti puntano il dito su di lui: «Le hai rovinato la vita», si sente dire. «Guarda cosa hai fatto!». Passa da un trasloco all’altro, pedinato da agenti dell’Fbi per mezza America. Ma Tommie si è sempre rifugiato nello studio e alla fine la ruota gira. Riesce a diventare coach di atletica a Oberlin, Ohio, e professore di sociologia a Santa Monica. Però deve aspettare il 2003 perché la sua protesta venga riconosciuta come un momento di coraggio e solidarietà tra i popoli. Lui, in questa vicenda, si definisce un sopravvissuto. Ed è così che lo trovo, quando finalmente ci parlo di persona, a Berkeley, nel 2016. Un sopravvissuto. Non ha molto trasporto nel raccontarmi del passato, ma quando gli chiedo dei ragazzi che stanno correndo alle sue spalle, sulla pista di atletica dove si svolgono le giornate finali del suo programma di sostegno alle famiglie svantaggiate della Baia di San Francisco, si accende. Gli occhi si illuminano, fiero. «Questi sono i miei ragazzi» dice. «Nessuno può toccarli senza vedersela con me!».
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