Il campione

Il Čechov del Nord

Romanziere, poeta, drammaturgo, sceneggiatore ed ex giocatore professionista di rugby, David Malcom Storey è nato a Wakefield, nello Yorkshire, il 13 luglio 1933. Figlio di un minatore e di una casalinga, David si trasferisce a Londra per studiare pittura, e si mantiene giocando a rugby. Nel 1956, in concomitanza con l’abbandono della carriera agonistica, sposa Barbara Rudd Hamilton, da cui avrà quattro figli. Più o meno nello stesso periodo decide di diventare uno scrittore, una strada che per la verità lo tentava fin dai tempi della scuola. Durante una lezione di francese – ha raccontato Storey – mentre l’insegnante leggeva una poesia di Verlaine, lui ha avuto una visione: «Stavamo tutti su una linea ferroviaria, e saremmo diventati tutti insegnanti; potevo vedere il matrimonio, la casa, la macchina, lo stipendio, la pensione… e proprio alla fine del binario c’era questa parola, Morte. È arrivata in un batter d’occhio, ed è stata incredibilmente nitida. Allora ho soltanto deciso che avrei fatto della mia vita qualcosa di totalmente diverso da quello che tutti si aspettavano da me».

Per un periodo David lavora come supplente nelle scuole, mentre i suoi primi sei manoscritti sono rifiutati dalle case editrici. Ma nel 1960, a ventisei anni, pubblica il suo primo romanzo, This Sporting Life, che racconta la parabola umana e sportiva di un giovane operaio che tenta di sfondare giocando a rugby, e allaccia una sfortunata storia d’amore con la vedova da cui vive a pensione. Il libro è subito accostato dalla critica alla «new wave» del realismo inglese postbellico, ottiene un’immediata popolarità e vince l’anno successivo il MacMillan Fiction Award. Nel 1962 esce per Feltrinelli la prima traduzione italiana, con il titolo Il campione (poi ripubblicato nel 1966 da Garzanti). Nel 1963, invece, Lindsay Anderson porta il romanzo sullo schermo realizzando, all’esordio, uno dei momenti più alti del Free cinema britannico (il British Film Institute ha incluso il film – restaurato di recente e presentato al Festival del cinema di Torino 2009 – tra le cento migliori opere inglesi del Ventesimo secolo).

Sull’onda del successo, Storey scrive un secondo romanzo, che esce a pochi mesi di distanza dal primo, Flight to Camden (1960), tradotto in Italia nel 1964 come Fuga a Camden, e vincitore del John Llewellyn Rhys Memorial Prize nel 1961. È la storia – narrata in prima persona – di una segretaria di una fabbrica del nord dell’Inghilterra, figlia di un minatore, che si innamora di un uomo sposato, un aspirante artista, con cui abbandona la famiglia (e le pressioni della piccola comunità) per trasferirsi a Londra, dove condurraanno per un po’ una vita bohémien, fin quando l’amore e la passione non saranno soverchiati dall’isolamento culturale, dal senso di sradicamento e di vuoto.

Nel 1963 esce una delle opere più controverse di Storey, Radcliffe: un «romanzo dall’atmosfera gotica» che racconta la tragica attrazione omosessuale che lega, in un rapporto sadomasochistico di crescente manipolazione, un debole aristocratico (il Radcliffe del titolo) e un operaio «dalla personalità magnetica e distruttiva». Con questa opera, accostata dalla critica a D.H. Lawrence e all’Idiota di Dostoevskij, si chiude la prima fase della produzione narrativa di Storey, che intreccia a quel punto un lungo sodalizio con Lindsay Anderson, avviato con la sceneggiatura del Campione, scritta a quattro mani (con la collaborazione non accreditata di Doris Lessing), e proseguito sui palcoscenici londinesi. Tra il 1967 e il 1975 Anderson mette in scena nove lavori teatrali di Storey, che si merita in questo periodo l’appellativo di «Čechov del Nord», coniato dallo storico del teatro John Russel Taylor.

Storey torna alla narrativa con A Temporary Life (1973), e poi con Saville (1976), vincitore del Booker Prize, un altro romanzo ampiamente autobiografico, una saga familiare ambientata in una cittadina mineraria dello Yorkshire, che racconta la vicenda di Colin Saville: dall’adolescenza, segnata dalla Grande Depressione e dalla guerra, alla giovinezza, fino al nascere delle sue ambizioni artistiche (nell’Inghilterra degli anni Cinquanta) che lo inducono a partire per Londra. Altri due romanzi escono nei primi anni Ottanta, A Prodigal Child (1982) e Present Times (1984), prima di un lungo periodo di silenzio, durato quattordici anni e interrotto con la pubblicazione di A Serious Man (1998), sorta di memoir camuffato che racconta di uno scrittore sessantenne afflitto da stati depressivi e assegnato alle cure della figlia, un uomo che in passato è stato illuminato da una poesia di Verlaine che l’ha spinto a perseguire con ostinazione una carriera di artista.

this-sporting-life-1

Rachel Roberts e Richard Harris in un’immagine del film «Il campione»

Il campione

Il campione è la storia di Arthur Machin, un giovane operaio ossessionato dal successo che cerca di farsi strada giocando a rugby nella squadra di Primstone, una cittadina mineraria nel nord dell’Inghilterra. Arthur lavora come tornitore nella fabbrica del signor Weaver (uno dei due proprietari del club) e vive in affitto presso la signora Hammond, una vedova con due figli a carico. Arthur entra subito nelle simpatie del signor Weaver, che lo aiuta a comprarsi una Jaguar e lo introduce nella ristretta società che circonda la squadra, dove si consumano amicizie, rivalità e intrighi. Il ragazzo intanto diventa un idolo di Primstone: la gente lo riconosce mentre passeggia per strada e lo accoglie con un boato quando entra nello stadio; lui invece passa le serate al Mecca, un locale dove le ragazze fanno la fila per ballare con i famosi atleti della squadra di rugby; il ragazzo, insomma, ha la città ai suoi piedi – e potrebbe avere anche la moglie di Weaver, se volesse. Ma Arthur si è innamorato della signora Hammond, anche se lei ha dieci anni di più. Dopo qualche tentativo, ne diventa l’amante: le compra una pelliccia, un televisore per i bambini; un giorno porta tutta la famiglia a fare una scampagnata con la Jaguar. Ma questo rapporto sbilanciato non può funzionare, perlomeno non nella gretta provincia inglese degli anni Cinquanta, soffocata dai pregiudizi e da rigide convenzioni sociali. L’abbandono del club da parte di Weaver, il matrimonio e i progetti imprenditoriali di un compagno di squadra, la malattia improvvisa della signora Hammond finiscono per incrinare la sicurezza e l’entusiasmo giovanile di Arthur: e anche per lui – come per molti atleti che hanno trovato gloria effimera, smarrendo sé stessi –, arriva alla fine il momento in cui l’incantesimo si rompe, e bisogna fare i conti con la realtà.

Quando Il campione fu pubblicato nel 1960, sulla scena letteraria inglese erano appena comparsi altri giovani autori come John Braine, Alan Sillitoe, Stan Barstow, Barry Hines, ai cui lavori furono subito accostati sia lo stile realistico sia l’ambientazione del romanzo di Storey. Questi giovani emergenti furono classificati come i protagonisti di una nuova o «seconda ondata» di scrittori proletari di provincia, che seguivano, a qualche anno di distanza, John Osborne, Kingsley Amis, John Wain e gli altri «giovani arrabbiati» (angry young men) degli anni Cinquanta, animati da un senso di disagio e di rabbia nei confronti dell’establishment borghese. Diverse somiglianze c’erano, in effetti: quasi tutti erano di origine operaia, e si erano trasferiti a Londra da qualche cittadina industriale del Nord. John Braine era dello Yorkshire come Storey, mentre Alan Sillitoe, autore di Saturday Night and Sunday Morning (Sabato sera e domenica mattina, 1958), era di Nottingham, figlio di operai e autodidatta. L’attenzione di questi giovani autori del Nord per le condizioni della gente più povera, la loro rappresentazione dei conflitti di classe – ha sottolineato lo scrittore Caryl Phillips – era «molto più onesta e veritiera di quella dei loro contemporanei del Sud, che non sapevano realmente cosa significava lavorare in miniera, e ignoravano la differenza tra un lounge pub e un bar di periferia». Ha scritto Paola Splendore che i loro romanzi, insieme ai drammi di Osborne (tra cui Ricorda con rabbia, 1956), «rappresentarono un vero momento di rottura con ogni forma di tradizione culturale, […] ebbero un effetto demistificante rispetto ad alcuni luoghi comuni diffusi in quegli anni, come il benessere per tutti e la scomparsa delle stratificazioni e dei privilegi sociali». Per John Irving (vedi il suo articolo apparso sul «manifesto» del 27/1/08), Il campione è un potente «affresco dell’Inghilterra» del tempo, «quella delle ciminiere e delle miniere», e un efficace ritratto del conformismo della provincia inglese durante il boom consumistico del secondo dopoguerra.

Allo stesso tempo, Il campione è anche dotato di una certa autonomia rispetto al movimento dei «giovani arrabbiati». È innegabile, infatti, che tutta la produzione di Storey, suddivisa in opere narrative, teatrali e poetiche, abbia una notevole coerenza di temi, e attinga in modo evidente alla biografia dell’autore.

L’elemento portante del Campione è senza dubbio il rugby, un elemento che trae spunto dal passato sportivo di Storey e conferisce al romanzo una straordinaria attualità nel mettere a nudo i meccanismi che regolano lo sport professionistico e la vita degli atleti – gli intrighi societari, l’amicizia goliardica e le rivalità tra i giocatori, il clima d’attesa e d’eccitazione che si respira prima del match, insieme ai vapori delle docce, all’odore di linimento e di sudore. Intorno al rugby Storey costruisce la struttura narrativa del libro e la parabola umana del protagonista, creando un’opposizione e un conflitto tra il successo di Arthur (la sua vita sportiva, gli eccessi) e l’infelice dimensione privata (il lavoro come tornitore, l’amore per la signora Hammond). Da questo punto di vista, Il campione ripropone – come ha suggerito Giovanni Grazzini («Corriere della Sera», 1963) a proposito del film di Anderson – «il mito antico della caduta dell’eroe», sotteso anche alla vicenda di Rocky Graziano, il peso medio italoamericano, di cui Arthur nel tempo libero legge avidamente l’autobiografia (Lassù qualcuno mi ama, trasposta sul grande schermo da Robert Wise nel 1956 e interpretata da Paul Newman).

Arthur Machin è il primo di una lunga serie di creazioni letterarie dai tratti comuni: un personaggio emblematico della produzione di Storey. Arthur non è un iconoclasta o un contestatore consapevole, dotato di una coscienza sociopolitica: è piuttosto un «ribelle senza causa», un disadattato la «cui perdita d’identità» deriva (come per la Margaret di Viaggio a Camden) «dalla rescissione dei vincoli di classe e dallo sradicamento dalla cultura d’origine e dal proprio sistema di valori» (Paola Splendore). Lo stato di confusione in cui Arthur si dibatte può forse spiegare anche l’attaccamento morboso alle sorti della vedova Hammond (dieci anni più grande e già madre di due figli), con cui il ragazzo instaura un legame ambiguo e sbilanciato, inaccettabile per quel tempo – una relazione che richiama alla memoria le immagini celebri di un film di pochi anni dopo, Il laureato (1967) di Mike Nichols, in cui si consumava il rapporto clandestino tra il giovane Dustin Hoffman e la matura Ann Bancroft.

Molti personaggi di Storey, e quelli del Campione non fanno eccezione, per quanto virili e determinati, sono dotati di una notevole ambiguità, in primo luogo, ma non solo, sessuale. Se la femminilità è il tema del secondo romanzo di Storey (Viaggio a Camden), e l’omosessualità è al centro del terzo (Radcliffe,), una discreta ambivalenza emerge anche nel Campione, per esempio nell’intimità fisica che si crea tra gli atleti, spesso immersi nella stessa vasca, intenti a spalmarsi unguenti su muscoli e vertebre doloranti, in costante contatto gli uni con gli altri durante gli allenamenti e le partite – una tenerezza che può facilmente tramutarsi sul campo in odio e violenza, come accade anche ai sentimenti di Arthur per la signora Hammond. Questa ambivalenza si ritrova anche nei singoli caratteri delineati da Storey: per esempio in Weaver, che all’inizio appare come un risoluto uomo d’affari e poi si rivela un debole e perfino un incapace; e naturalmente in Arthur, la cui anima è divisa tra la forza e l’esuberanza (esteriore, fisica) e la fragilità emotiva, l’incertezza. Già nel suo romanzo d’esordio Storey si dimostra un maestro nel costruire situazioni drammatiche senza via d’uscita, in cui crescono ed esplodono le tensioni sociali, psicologiche ed emotive dei personaggi – insomma, le caratteristiche che gli avrebbero fatto guadagnare, più tardi, l’appellativo azzeccato di «Čechov del Nord».

(Michele Martino, settembre 2010)