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I circuiti celesti, l’incipit

A due anni dalla tragica scomparsa di Marco Simoncelli, arriva in libreria I circuiti celesti di Emanuele Tonon, un toccante ritratto del pilota romagnolo nella cui breve e folgorante carriera si è rinnovata l’epica del motoclismo, «l’ultimo sport che esige un dominio severo dell’uomo sulla macchina». Ecco l’incipit del libro, in uscita il 31 ottobre.

 

«Avevi allargate le braccia, stavi a cavalcioni sulla moto in corsa. In quella cavalcata trionfale prossima allo svenimento, mentre non riuscivi a respirare costretto dal casco, mentre dovevi raggiungere uno stato di coscienza superiore per ultimare i giri che ti separavano dalla vittoria – quell’euforia così prossima alla gioia –, in quella cavalcata tutto si era rivelato: la tua natura angelica, la tua accettazione dell’aria. Avevi sfidato il tempo, la perfezione. Avevi cercato di abbattere un limite, di portarti oltre. Ci eri riuscito come uno che ha conosciuto la sconfitta, che dagli sbagli ha sempre cercato di imparare, come uno che non conosce l’invidia ma vibra nella potenza della sfida, della competizione. Come uno che tante volte è caduto e che tante volte si è rialzato.
Quando si corre su due gomme sormontate dal metallo, il cielo è una variabile come l’aria e l’asfalto, le mescole e l’elettronica. Una volta c’erano le praterie, i cavalli e i cavalieri, l’uomo e la potenza animale. Poi è arrivato il cavallo a vapore, l’acciaio e una nuova disciplina. A sovrastare tutto, però, rimane l’ardimento, l’accettazione e la sconfitta della paura.
Dopo che avevi superato il secco ed acrobatico sventolio della bandiera a scacchi, ti eri tolto il casco, finalmente. L’asfalto aveva raggiunto il cielo e tu avevi socchiuso gli occhi, poi li avevi riaperti vedendo il mondo senza costrizione, annebbiato dalla gloria, forse, ma non più dalla visiera. Ti eri abbeverato, avevi tamponato il sudore, avevi abbracciato tuo padre, il tuo team, e avevi aperto la bocca in un sorriso che non voleva finire mai. Per felicità, certo, ma anche per bisogno di ossigeno.
Avevi allargate le braccia a rivelare una natura angelica, e quelle braccia aprivano l’aria, quelle lunghe dita tagliavano l’umido oleoso di una Malesia ormai lontana. Lì avevi vinto il tuo primo campionato del mondo, eri nato alla gloria dei circuiti terrestri. Non lo sapevi, nessuno di noi poteva saperlo, che solo tre anni dopo saresti nato di nuovo, su quello stesso asfalto, fendendo quella stessa aria umida e opprimente che ti aveva visto nascere alla vittoria gioiosa, in quella fusione di asfalto e cielo, in quella rivelazione di te come essere alato.
Ed è per questo che resti per me energia di cui necessito per continuare a vivere in questa tensione.
Il ritratto, il ricordo di un ragazzino epico e tragico, cresciuto in una terra di sognatori, dovrebbe riuscire a raggiungere il limite, a non cadere rovinosamente nella retorica, a trattenere il pianto nella resa dello scritto. Riuscire a restare vicinissimo al limite senza superarlo, questo è lo scarto fra un campione e un pilota. Ma questa prossimità estrema abbisogna di tempo, di pratica, di accettazione del rischio. Quel tempo che a Marco è stato sottratto improvvisamente, in una scivolata banale. Il limite è un’asticella che sale continuamente e quello che in un altro tempo era il limite ora è la normalità.

Cosa si cerca quando si corre in moto? È l’immortalità che si vuole raggiungere. I piloti immortali sono rari, vivono nel regno dei cieli, e sono buoni amici.
Noi fallaci mortali esibiamo imprese rabberciate e le foderiamo di patina luminosa. Abbiamo un’immortalità prêt-à-porter, che diventa polvere di fronte all’incedere del tempo. Agli eroi si chiede verità. Alcuni possono esibire imprese, campionati vinti. Ma spesso tutto questo non è così buono da durare. Alcuni eroi immortali sono odiati, odiati con impegno, infamati, eppure sono sempre più grandi.
Gli eroi che rimangono, gli eroi che incidono, gli eroi che si pietrificano nel palcoscenico segreto dei cuori sono quelli che si sono lasciati trasportare dalla vertigine, col so∑o del loro talento e del loro coraggio. L’eroe non mente, l’eroe è paziente. L’eroe nella sua ingorda gloria tesse la sua veste mortale, monta il suo sudore immortale, raccoglie il suo sangue mortale e non ne fa un vanto.
Anche quando vacilla, quando sta per soccombere, l’eroe cancella il limite del tempo, rifugge l’approssimazione e si concede sanguinante. Non esistono trucchi. L’eroe è di sua natura illimitato, l’eroe è onda e verità senza limite. L’eroe dialoga con la sua ombra. L’eroe è consapevole delle sue ceneri».

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