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Giovani e arrabbiati. Hool di Philipp Winkler

Pubblichiamo l’incipit in italiano e in lingua originale dal tedesco di Hool, il romanzo di Philipp Winkler.
Heiko è in auto con un gruppo di amici, stanno andando a un «match». L’appuntamento è in un parcheggio di periferia. Il match non è una partita di calcio, ma uno scontro con gli hooligans del Colonia. Il calcio diventa una fede da onorare a tutti costi, con un unico fattore che accomuna tutti i personaggi: la rabbia costante che guida la vita di Heiko e compagni nelle vie di Hannover. Una storia di formazione cruda con personaggi romantici e senza speranza.

Hool è disponibile in libreria e sul nostro sito dal 5 aprile, tradotto da Riccardo Cravero. Buona lettura da 66thand2nd!

 

Layout 1
Scaldo nella mano il paradenti nuovo. Me lo rigiro fra le dita e lo premo un po’, come faccio prima di ogni scontro. Il materiale gel mantiene la forma, cede appena. È il top, di meglio non ce n’è. Fatto su misura da un odontotecnico. Non è uno di quegli affari scadenti prodotti in serie che dopo due settimane puoi già buttare via perché ti tagliano le gengive. O perché quella cazzo di forma standard e il sapore di plastica ti danno i conati di vomito. Tranne Jojo, con il suo micragnoso stipendio da custode, un paradenti così ormai ce l’abbiamo tutti. Kai, che deve sempre avere la roba più figa. Ulf, che tanto per lui sono spicci. Tomek, Töller. E tutti quelli che hanno un lavoretto decente. Zio Axel per forza di cose. È stato lui, un paio d’anni fa, a trovare l’odontotecnico, uno specializzato in sport di contatto, che rifornisce atleti da combattimento in tutta la Germania. So che ci vanno anche alcuni da Francoforte, e perfino gente dell’Est, da Dresda e da Halle, quelli del Zwickau. Come minimo gli girano la mesata del sussidio di disoccupazione, penso, e intanto passo la punta del dito sui fori per l’aria.
«Ehi, Heiko!». Kai mi dà una gomitata nel fianco. «Il telefono». Il cellulare che ho preso al discount vibra fra noi sul sedile. Lo raccolgo con le dita che tremano. Mio zio mi guarda dallo specchietto laterale. Schiaccio il tasto con la cornetta verde.
«Dove siete? Vi stiamo aspettando» dice la voce del tizio del Colonia con cui ho organizzato il match. Abbasso il finestrino per vedere meglio fuori, cerco qualche punto di riferimento.
«Siamo a Olpe, appena usciti dalla B 55. Ci siamo quasi, no?».
«Seguite l’In der Wüste. Alla seconda rotatoria girate a destra. Fate tutto l’Am Bratzkopf finché non uscite dal paese. Il bosco è sulla destra. Non potete sbagliarvi».
Prima che riattacchi gli ripeto ancora una volta gli accordi. Quindici uomini da una parte, quindici dall’altra. Poi metto giù.
«Allora?» chiede Axel senza voltarsi, continuando a fissarmi dallo specchietto laterale. Nonostante il riflesso del sole, sento il suo sguardo che mi passa da parte a parte. Mi sta facendo l’esame. Gli comunico le indicazioni stradali, sottolineando che ho ricordato le regole al mio contatto.
«Ho sentito» dice lui, e si gira verso Hinkel, che come sempre è al volante. Axel ripete le mie parole. Come se Hinkel non mi avesse ascoltato o fosse incapace di seguire le indicazioni se non vengono da lui. Mi accorgo che Kai, al mio fianco, mi sta guardando. Ha gli angoli della bocca tirati su in un sorrisetto d’intesa. Se mi girassi verso di lui scommetto che alzerebbe pure gli occhi al cielo, come per dire solito maniaco del controllo del cazzo o una cosa del genere. Io però non mi muovo. Mi preoccupo piuttosto che Hinkel prenda la strada giusta. Lui grugnisce per far sapere che ha capito. Tiene il volante a ore dodici, stringendolo con un pugno che sembra una polpetta. Tra i lunghi peli sul dorso luccica qualche goccia di sudore. I peli sembrano pettinati da una parte. L’altra mano la lascia penzoloni fuori dal finestrino.
Tomek, seduto alla sinistra di Kai, scrolla i messaggi sul telefonino con la faccia di uno a cui non gliene frega niente. Classica espressione dei paesi dell’Est. Umore buono o umore di merda, quel grugno slavo è sempre uguale. Indecifrabile. Non cambierebbe di una virgola anche se vincesse alla lotteria. La sigaretta che tiene nella sinistra nemmeno la guarda. L’aria che entra dal finestrino gliela brucia in fretta. Del resto, se avesse le palle girate non ci sarebbe da stupirsi: prima di partire ha perso il diritto a sedere davanti perché Kai ha gridato «shotgun» per primo. Mi sa che le regole del gioco Tomek manco le conosce. Sta di fatto che adesso gli tocca sedere proprio nel posto dove Jojo, l’ultima volta, col naso spaccato, ha versato sangue dappertutto. La proboscide di Jojo è conciata abbastanza male. Ma la stoffa del sedile non è messa meglio. Comunque quello è il posto che di base uno non vorrebbe mai, quando fa caldo. Dietro a Hinkel. Nemmeno col finestrino aperto.
Kai alza il culo di qualche centimetro e pesca una scatolina dalla tasca posteriore degli Hollister. Svita il coperchio e raccoglie un mucchietto di coca con il pollice, porta il dito alla narice, sniffa, e passa all’altra. Il pulmino Volkswagen balla parecchio ma lui riesce lo stesso a non far cadere niente. Piega la testa indietro. Il ciuffo col gel sopra l’undercut sfrega contro l’imbottitura unta del poggiatesta. Mi porge la scatolina, con un ghigno.
«Ne vuoi un po’? Magari è la volta che non ti caghi sotto». Ghigno anch’io: «Meglio riempire le mutande che il naso, Pollicino» rispondo. Lui ride. Sono secoli che non mi pippo qualcosa. Mentre riavvita il coperchio, Kai tira fuori il dito medio. Mio zio si fa sentire schiarendo la gola. Kai si stringe nelle spalle e si ficca di nuovo la scatolina nei jeans. Sa benissimo che Axel non sopporta che qualcuno si spari della roba prima di un match. Nemmeno roba che ti sgombra la testa come la coca. Ma quella è una cosa che neppure zio Axel riuscirebbe a togliere ai ragazzi. Quindi di solito lascia correre, se uno non esagera. Che poi anche a lui non è che la coca gli fa schifo. Molti ne hanno bisogno per calmarsi i nervi. Vabbè, oppure perché gli piace farsi. Ma se uno non sapesse starci dentro, Axel non lo porterebbe. Almeno non ai match che contano, come quello di oggi. In cui è fondamentale rappresentare Hannover con onore. In realtà, Kai è uno che tira di brutto, però è troppo cazzuto per lasciarlo a casa. In confronto a lui, tutti quegli armadi pieni di muscoli sembrano agili come trattori. Prima dei match, comunque, grazie a me, Kai cerca di darsi una regolata. E mio zio sa benissimo che se lasciasse Kai in panchina non potrebbe contare fisso su di me.
Il cartello giallo di Olpe schizza via accanto al T5. Mi sporgo in avanti e infilo la faccia tra Hinkel e mio zio.
«Adesso dritto…».
«Dritto oltre la prima rotatoria. Alla seconda uscire a destra» mi interrompe Axel. Mi butto indietro sul sedile e mi unisco agli occhi alzati al cielo di Kai. Che mi allunga una sigaretta. La accendo e faccio un tiro profondo. Davanti a me, lo spazio fra le barre metalliche del poggiatesta è riempito completamente dalla nuca arrossata e carnosa di mio zio. A destra e a sinistra dello schienale sporgono le sue spalle, angolose come se le avessero disegnate con una squadra. Sbuffo il fumo verso la porzione di collo tra le barre e dico: «Esatto».

* * *

Ich wärme meinen neuen Zahnschutz in der Hand an. Wende ihn mit den Fingern und presse ihn etwas zusammen. So mache ich es vor jedem Kampf. Das Gelmaterial bleibt stabil, gibt nur wenig nach. Das ist ein Top-Ding. Was Besseres kann man nicht bekommen. Individuell vom Zahntechniker hergestellt. Keines dieser Billoteile aus Massenproduktion, die man nach zwei Wochen gleich wieder in die Tonne kloppen kann, weil dir die Kanten ins Zahnfleisch schneiden. Oder weil man wegen der beschissenen Passform und dem chemischen Kunststoffgeruch andauernd einen Würgreiz kriegt. Bis auf Jojo mit seinem mageren Hausmeistergehalt haben wir inzwischen fast alle so einen Zahnschutz. Kai, der immer den feinsten Shit haben muss. Ulf. Der kann das mal locker aus der Portokasse zahlen. Tomek, Töller. Und einige unserer Jungs, die entsprechende Jobs haben. Onkel Axel sowieso. Der hat den Zahntechniker vor ein paar Jahren aufgetan. Hat sich auf Kontaktsportarten spezialisiert und versorgt Kampfsportler in ganz Deutschland. Wie man hört, sollen auch welche von den Frankfurtern zu dem gehen und einige Jungs aus dem Osten. Aus Dresden und Halle, die Zwickauer. Müssen bestimmt ihren Monatssatz Hartz IV dafür hinblättern, denke ich und fahre die durchgestanzten Atemlöcher mit der Fingerspitze ab.

»Ey, Heiko!« Kai stößt mich in die Seite. »Handy klingelt.« Das Discounterhandy brummt zwischen uns auf dem Sitz. Mit zittrigen Fingern greife ich danach. Mein Onkel beobachtet mich im Seitenspiegel. Ich drücke auf die Taste mit dem grünen Hörer.
»Wo seid ihr? Wir warten«, kommt die Stimme von dem Kölner, mit dem ich das Match vereinbart habe, aus der Muschel. Ich kurble die Scheibe runter, um besser rausschauen zu können, suche nach irgendwelchen Anhaltspunkten.
»Sind bei Olpe von der B 55 ab. Müssten gleich da sein.«
»In der Wüste lang. Zweiten Kreisel rechts raus. Am Bratzkopf durch bis kurz hinterm Ortsausgang. Links kommt der Wald. Könnt ihr nich’ verfehlen.«
Bevor er auflegt, erinnere ich ihn noch mal an die Abmachung. Fünfzehn Mann auf jeder Seite. Dann lege ich auf.
»Also?«, fragt Axel, ohne sich umzudrehen. Er beobachtet mich immer noch im Seitenspiegel. Trotz der Sonnenreflexion kann ich seinen stechenden Blick erkennen. Wie er mich prüft. Ich gebe die Wegbeschreibung weiter und betone noch mal, dass ich den Typen an die Abmachung erinnert habe.
»Hab ich gehört«, sagt er und dreht sich zu Hinkel, der wie immer am Steuer sitzt. Axel wiederholt die Wegbeschreibung. So als ob Hinkel mich nicht gehört hätte oder er den Weg nur fahren könnte, wenn die Anweisung von ihm kommt. Ich bemerke, wie Kai mich von der Seite ansieht, den Mundwinkel verzieht. Nett gemeint. Wenn ich ihn jetzt angucke, wird er bestimmt noch mit den Augen rollen. Mir damit sagen, Scheiße noch mal, was fürn Kontrollfreak. So in der Art. Aber ich reagiere nicht, sondern achte drauf, ob Hinkel den richtigen Weg nimmt. Er grunzt, was wohl heißen soll, dass er verstanden hat. Mit seiner bulettenartigen Hand umgreift Hinkel das Lenkrad auf zwölf Uhr. Schweißperlen haben sich in seinen langen Handrückenhaaren verfangen und funkeln in der Sonne.
Sehen aus wie quer rübergekämmt. Die andere Hand lässt er aus dem Fenster baumeln.
Tomek, der links von Kai sitzt, scrollt mit unbeteiligtem Gesichtsausdruck über sein Handy. Das ist so ein Ostblockding. Diese immer gleiche slawische Fresse. Gut oder scheiße gelaunt. Kann man nicht erkennen. Mit dem Ausdruck würde er wohl selbst einen Lottogewinn entgegen- nehmen. Die Kippe in seiner linken Hand ignoriert er. Der Fahrtwind brennt sie wie in Zeitraffer runter. Wär auch kein Wunder, wenn er kacke drauf ist. Schließlich hat er vor dem Losfahren das Shotgun-Spiel um den besseren Platz gegen Kai verloren. Kennt das wahrscheinlich nicht mal. Jetzt muss er da sitzen, wo Jojo letztes Mal mit seiner zerstörten Nase alles vollgeblutet hat. Jojos Gummel hat da richtig gelitten. Und das Sitzpolster erst. Außerdem ist das von vornherein der Platz, auf dem man an heißen Tagen auf keinen Fall sitzen will. Hinter Hinkel. Selbst bei offe- nem Fenster.
Kai hebt seinen Arsch ein paar Zentimeter über den Sitz und fingert seine Puderdose aus der Gesäßtasche seiner Hollister-Jeans. Er schraubt sie auf und schaufelt sich ein Häufchen Koks auf den Daumen, hält ihn sich nacheinander unter die Nasenlöcher und snifft. Die Karre holpert ganz schön, aber er schafft es, dass nichts danebengeht. Er legt
den Kopf zurück. Seine gegelte Boxerfrise schrappt über den fettigen Polsterbezug der Kopfstütze. Er hält mir die Dose hin.
»Auch was? Vielleicht machste dir dann mal nich’ in die Buchse.« Er grinst. Ich grinse zurück und sage: »Besser Hose voll als Nase voll, Herr Daum.« Er lacht. Schon lang her, dass ich mir irgendwas reingepfiffen habe. Während er die Dose zuschraubt, spreizt er den Mittelfinger ab. Von meinem Onkel kommt ein kehliges Räuspern. Kai zuckt die Schultern und schiebt die Dose zurück in seine Jeans. Er weiß ganz genau, dass Axel es nicht leiden kann, wenn wir uns vor einem Match mit irgendwas zuballern. Selbst Zeug wie Koks, das dir den Kopf klar macht. Aber das ist so eine Sache, die bekommt selbst Onkel Axel nicht aus den Leuten raus. Deswegen lässt er es meistens durchgehen, solange es niemand übertreibt. Ist ja selbst auch kein Kostverächter. Viele brauchen das gegen die Nervosität. Na ja, oder weil sie halt einfach Druffies sind. Aber wer sich nicht am Riemen reißen kann, den nimmt Axel nicht mit. Jedenfalls nicht auf wichtige Matches. Wie heute. Wenns wirklich drum geht, Hannover ehrenhaft zu vertreten. Kai ist zwar schon immer ordentlich dabei mit dem Koksen, aber er ist zu gut, um ihn zu Hause zu lassen. Die ganzen Pumperschränke wirken gegen ihn so wendig wie Planierraupen. Und dank mir hält er sich vor Matches etwas zurück. Außerdem weiß mein Onkel ganz genau, dass er nicht ständig mit mir rechnen könnte, wenn er Kai auf der Ersatzbank lassen würde.
Das gelbe Ortsschild von Olpe rauscht an der Beifahrer- seite des T5 vorbei. Ich beuge mich vor, das Gesicht zwi- schen Hinkel und meinem Onkel.
»Jetzt gerade –«
»Geradeaus über den ersten Kreisverkehr. Auf dem zweiten rechts raus«, unterbricht mich Axel. Ich lasse mich zurück in den Sitz fallen und erwidere Kais Augenrollen. Er reicht mir eine Zigarette. Ich zünde sie an und nehme einen tiefen Zug. Der Raum zwischen den metallischen Streben der Kopfstütze vor mir wird komplett vom fleischig-roten Nacken meines Onkels ausgefüllt. Links und rechts der Rückenlehne schauen seine Schultern hervor, die so kantig sind, als wären sie mit einem Winkel konstruiert. Ich puste einen Rauchstrahl in Richtung der roten Fläche zwischen den Streben und sage: »Genau.«

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