Fine pena mai (troppo tardi)
È con un misto di legittima soddisfazione e di malinconica rassegnazione che è giunta da Phnom Penh, durante le ferie estive, il 7 agosto scorso, la notizia della condanna all’ergastolo dei due principali leader dei Khmer rossi ancora in vita. Si tratta di Nuon Chea – ex «fratello numero 2» e vice di Pol Pot – e Khieu Samphan – ex capo di Stato del regime maoista. Il tribunale speciale dell’Onu li ha ritenuti colpevoli di crimini contro l’umanità, pochi giorni dopo l’inizio di un secondo processo in cui i due imputati saranno giudicati per le persecuzioni ai danni delle popolazioni vietnamita e musulmana.
«È un giorno storico,» ha affermato Ou Virak, presidente del Cambodian Center for Human Rights «l’ultimo capitolo del passato oscuro della Cambogia».
Un’occasione senz’altro importante per rendere vivo il ricordo delle vittime e non dimenticare, perché non si ripetano, gli orrori perpetrati nel sogno di un’utopia politica – come hanno fatto la scrittrice cino-canadese Madeleine Thien nel suo L’eco delle città vuote o, nei confronti del genocidio dei tutsi (di cui ricorreva quest’anno il ventennale), l’autrice ruandese Scholastique Mukasonga in Nostra Signora del Nilo.
La soddisfazione per la giustizia compiuta è stemperata solo dal carattere tardivo e simbolico della sentenza, visto che i due condannati hanno rispettivamente ottantotto e ottantatré anni, mentre Pol Pot è morto nel 1998 senza aver ricevuto alcuna incriminazione e l’attuale classe dirigente cambogiana è restia a sostenere le attività del tribunale, che potrebbe a breve chiudere i battenti per mancanza di fondi.
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