Michael Jordan, la vita

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Nessuno come lui: Michael con la divisa dei Bulls e le Nike «Air Jordan»

 

The Shot

Chicago finì al quinto posto nella Eastern Conference, con un bilancio tra vittorie e sconfitte di 47-35, che spedì i «Jordanaires» a sfidare nel primo turno di playoff i Cavaliers, quarti in classifica con sole quattro sconfitte casalinghe rimediate in tutta la stagione. Jordan aveva iniziato ad ascoltare Anita Baker quella primavera, e prima delle partite si caricava con Giving you the best that I got. E nella serie con i Cavs aveva davvero bisogno di una carica speciale, visto che i Bulls avevano perso tutte e sei le partite della regular season contro di loro. Le statistiche però non impedirono a Lacy Banks di pronosticare spavaldamente una vittoria di Chicago nella serie, al meglio delle cinque. Quando gli altri giornalisti espressero dubbi sul fatto che i Bulls potessero sopravvivere al primo turno, Jordan li sfidò stizzito, azzardandosi a proclamare addirittura una vittoria in gara quattro. Ma anche gli osservatori meno attenti sapevano che Cleveland aveva le contromisure giuste, sia dentro che fuori dal perimetro, per arginare Jordan – e si chiamavano Ron Harper e Craig Ehlo.

I Cavaliers prevalsero in gara uno, ma poi Chicago si portò a sorpresa in vantaggio per 2-1, ed ebbe l’opportunità di chiudere la serie allo Stadium, proprio in gara quattro. Jordan segnò 50 punti, ma sbagliò un tiro libero nel finale che permise a Cleveland di prendere il sopravvento nel tempo supplementare e pareggiare la serie sul 2-2. Jordan sembrava avere il morale sotto i piedi, ma si scrollò di dosso i dubbi molto in fretta. Jackson ricorda che quando Jordan si presentò il giorno successivo per prendere l’aereo diretto a Cleveland, saltellava nel corridoio e diceva ai compagni di non aver paura, perché avrebbero vinto loro.

Il suo entusiasmo si allungò fino a gara cinque, in programma il giorno seguente. Jordan iniziò la partita segnando e scodellando assist, e rispondendo ai Cavaliers un canestro dopo l’altro. Anche Hodges e Paxson contribuirono, con una raffica di triple, e la partita raggiunse il quarto periodo in equilibrio. Gli ultimi tre minuti furono scanditi da ben sei sorpassi nel punteggio. A sei secondi dalla fine, Jordan palleggiò forte alla sua destra, fino al limite dell’area, Ehlo si fiondò a stopparlo e subì proprio in faccia uno sbalorditivo tiro di Jordan che portò Chicago in vantaggio 99-98. Ehlo si riebbe, eseguì la rimessa, ricevette di nuovo la palla e andò a segnare in terzo tempo, portando Cleveland in vantaggio 100-99 a soli tre secondi dalla fine.

Nel time out, Collins disegnò in quattro e quattr’otto uno schema per il centro Dave Corzine, consegnandogli l’ultimo tiro della partita in base al ragionamento che nessuno se lo sarebbe aspettato. Jordan reagì con collera, colpendo la lavagnetta e dicendo al coach: «Datemi solo quella cazzo di palla!». Collins allora fece un nuovo schizzo al volo, affidando la rimessa a Brad Sellers. Appena rientrato in campo, Jordan sussurrò al compagno Craig Hodges che avrebbe tirato lui.

Il coach di Cleveland, Lenny Wilkens, provò a usare l’altezza di Larry Nance per negargli la ricezione, ma Jordan si smarcò, ricevette la rimessa e scattò verso la lunetta per un tiro in sospensione. Ehlo lo prese subito in consegna e difese da manuale, attaccandosi a lui, scivolando passo dopo passo, finché Jordan non riuscì a superarlo e salì in aria. Ehlo lo raggiunse e saltò da destra verso sinistra con il braccio sinistro in iperestensione, nel tentativo di contrastare il tiro con la mano. Ma l’elevazione di Jordan e il suo hang time ebbero la meglio. Ehlo aveva la mano di fronte al pallone, ma l’inerzia lo spingeva verso sinistra mentre ricadeva. La sagoma in rosso, invece, continuava a salire, toccò l’apice e rilasciò il morbido tiro della vittoria, 101-100, che innescò la famosa esultanza con i pugni scagliati verso l’aria, riproposta miliardi di volte negli anni successivi.

Quell’azione fu immediatamente ribattezzata «The Shot», il tiro.

 

Alle origini del brand Jordan

Nel 1982 Vaccaro aveva già versato diversi milioni di dollari – tutti provenienti dalle casse della Nike – nelle tasche dei coach universitari. Quell’anno fu invitato da John Thompson alle Final Four di New Orleans, ed è lì che venne folgorato da una nuova idea. Aveva notato che nonostante James Worthy avesse vinto il premio come miglior giocatore, Michael Jordan gli aveva rubato la scena. «È successo qualcosa» disse Vaccaro dopo il tiro vincente contro Georgetown «davanti al mondo intero». Era nata una stella.

Vaccaro non conosceva Michael Jordan. Dean Smith aveva firmato come testimonial della Converse, che i Tar Heels indossavano in partita. Jordan in realtà amava tutto ciò che era Adidas, soprattutto le scarpe, perché appena le tiravi fuori dalla scatola erano già pronte per giocarci. Non era necessario usarle per ammorbidirle. Così Jordan indossava le Adidas in allenamento e poi, diligentemente, le cambiava con le Converse per la partita. Vaccaro era convinto che il carisma avrebbe potuto rendere quel ragazzo una potenza di marketing. Desiderava che la Nike facesse firmare Jordan e realizzasse una linea di prodotti dedicati in esclusiva a lui. Vaccaro ne parlò con Rob Strasser e altri funzionari della Nike in una riunione del gennaio 1984. Jordan era al terzo anno e non aveva ancora deciso di saltare l’ultimo anno di università.

I dirigenti dell’azienda avevano stanziato un budget di due milioni e mezzo di dollari per reclutare testimonial nella Nba e stavano pensando di includere anche dei giovani, tra cui Charles Barkley  – a cui lo stile di gioco e il carisma anticonformistico avevano dato una certa notorietà – e Sam Bowie, che sarebbe stato scelto al draft da Portland ed era quindi vicino al cuore della Nike, in Oregon. L’idea di distribuire il budget su una serie di giovani, nel pieno del draft del 1984, aveva la sua logica: «Non lo fate!» disse Vaccaro a Strasser. «Date tutto a quel ragazzo. Date tutto a Jordan».

Fece una filippica sull’appeal di Jordan e su come fosse il personaggio ideale per portare il marketing delle scarpe da ginnastica a un nuovo livello. Ma la cosa più importante, proseguì Vaccaro, era che Jordan fosse il giocatore più forte che avesse mai visto.

Jordan può volare, spiegò Vaccaro a Strasser.

All’epoca, molti testimonial della Nba prendevano meno di diecimila dollari per indossare le scarpe di una certa marca. Solo un giocatore, Kareem Abdul-Jabbar, si diceva che raggiungesse i centomila dollari l’anno come testimonial di calzature sportive.

Ma a rendere ancora più curioso l’interesse di Vaccaro è che il pubblico non aveva ancora adottato Jordan come icona. «A quel tempo Michael non era stato ancora incensato, non era glamour» sottolinea Vaccaro. «Era molto bravo, sì, ma era considerato solo uno dei tanti ragazzi di Dean». Vaccaro sosteneva che Jordan stesse per decollare verso una celebrità inimmaginabile, verso una dimensione che nessun giocatore di basket aveva mai raggiunto. E che la Nike doveva agganciare il proprio destino a quello dell’astro nascente. […]

«Saremmo potuti andare sotto, se avessimo fallito» avrebbe dichiarato Vaccaro trent’anni più tardi, ripensando a quei giorni. «Puntammo tutto il denaro che avevamo su di lui. Cosa sarebbe successo se si fosse dimostrato un giocatore normale? Nessuno poteva averne la certezza, allora: sarebbe stata un’umiliazione. Però so per certo cosa non accadde: lui non si rivelò un giocatore normale. Era uno che, con un cambio di mano, guadagnava milioni di dollari».

 

Jordan e i Bad Boys

Niente infiammava Jordan come la vista di Isiah Thomas che entrava in campo prima di una palla a due. Lo dimostrò per l’ennesima volta in diretta televisiva, nell’aprile del 1988, segnando 59 punti e trascinando i Bulls alla vittoria per 112-110. I suoi parziali nella regular season contro Detroit suonavano come un oltraggio – 49, 47, 61 e 59 punti –, specialmente contro una squadra che faceva della difesa il proprio motivo d’orgoglio. «Avevamo deciso e ribadito più volte che non avremmo più permesso a Michael Jordan di vincere le partite da solo, con noi» ricorda Chuck Daly. «Ma per riuscire nell’impresa dovevamo impegnarci ad avere una visione globale, di squadra».

Lo staff dei Pistons era determinato a trovare un modo per limitare la stella dei Bulls, soprattutto nel quarto periodo. La strategia di Detroit fino ad allora si era sempre affidata alla fisicità dei suoi giocatori: «Isiah e Laimbeer mi chiedevano di farlo passare» ricorda Joe Dumars. «“Lascia che entri” mi dicevano. Beh, al tempo il gioco era molto più fisico e loro avevano voglia di essere fisici, tosti e cattivi. Era così che volevano fermare Michael».

«Eravamo una squadra molto tosta fisicamente, con Isiah, Rick Mahorn e Laimbeer» concorda Brendan Malone. «Quando Michael entrava a canestro per provare a segnare, lo tiravano giù. Lo stendevano a terra».

«Ma lui non mollava di un centimetro, non importa quanto lo picchiassero» ha ricordato nel 2012 l’ex dei Pistons James Edwards. «Usavamo le maniere dure, con Laimbeer e Mahorn. Lo punivamo. Ma lui non indietreggiava di un centimetro. Continuava ad andare a canestro. Non si fermava mai. Non aveva paura di nulla».

 

(I tre brani sono tratti da Michael Jordan, la vita di Roland Lazenby, in libreria per la collana Vite inattese dal 25 giugno 2015).