Terminus radioso

Antoine Volodine (e i suoi eteronomi)

Riproponiamo qui un estratto dalla lunga intervista a Anna D’Elia, traduttrice di Terminus radioso di Antoine Volodine, uscita sul blog Vita da editor di Giovanni Turi in occasione dell’uscita del libro.
Tra la ricca rassegna stampa dedicata a Volodine – vincitore del Prix Médicis 2014 e famoso per i molti pseudonimi con cui ama celare la propria identità – vi segnaliamo anche gli articoli di Vanni Santoni su Prismo (Nuova strana Europa), Carlo Mazza Galanti su Il Tascabile (Nuova letteratura francese), Luciano Funetta su Terranullius (Volodine: dal nulla verso il nulla), e Sebastiano Triulzi su Diacritica (Indossando un cappello da cowboy: viaggio nelle apocalissi di Volodine).

 

Sei stata tu a proporre a 66thand2nd la traduzione di Terminus radioso o è stata la casa editrice ad affidartela? Come è stato il tuo primo approccio con questo romanzo?
Conoscevo Volodine già da qualche anno. Me ne parlavano da tempo amici in Francia e in Italia. Non avevo letto i suoi grandi romanzi, solo alcune prose raffinatissime e stralunate, Nos animaux préférés, ad esempio, che avevo trovato bellissimo, o il magnifico Des anges mineurs. La ricerca universitaria segue ormai da molti anni Volodine e il post esotismo – specie nell’ambito di studi sull’evoluzione della struttura romanzesca – sicché il mio primo contatto con questo autore è avvenuto attraverso discussioni e scambi con amici letterati “di qua e di là dall’Alpe”. Un amico di amici, che adesso insegna in Giappone ed è stato un allievo di Volodine, mi aveva parlato del romanzo Prix Médicis 2014 come di un capolavoro assoluto. Quando alla fine del 2014, Isabella Ferretti mi parlò di Terminus radieux tra i grandi testi che 66thand2nd intendeva far uscire nel corso del 2016, le dissi del mio interesse per la lingua volodiniana. Ne parlammo insieme a lungo, per qualche mese, alla fine lei ritenne che potessi degnamente occuparmene – e di questo la ringrazierò sempre – ci pensò su e me lo affidò.
Non sapevo, però, in che razza di “gorgo” sarei precipitata: la dimensione stessa dell’opera, la complessità della struttura, il susseguirsi di inedite forme narrative, la coralità delle voci, la moltitudine dei personaggi e la presenza di un universo vegetale “mutante” tutto da inventare. È stato un lavoro improbo, a volte sfiancante, lunghissimo – ci ho lavorato un anno e mezzo – ma che mi ha regalato momenti di pura gioia. Quella vera, profonda, dove il tempo sparisce in un fluire ininterrotto e tu sai di fare il mestiere più bello del mondo, quella che non ti interessa nient’altro e non vedi l’ora di rientrare a casa per metterti davanti al computer e tornare “laggiù”, dove un’ora prima hai lasciato i tuoi personaggi, che intanto stanno vivendo cose importantissime e che tu non puoi certo permetterti di ignorare.

 

 

Quella di Volodine è una scrittura immaginifica che si diverte a disorientare il lettore (sino alla fine non viene per esempio chiarito chi sia il vero narratore): quali difficoltà specifiche hai affrontato durante l’opera di traduzione? Hai avuto modo di confrontarti con l’autore?
La questione della voce narrante in Volodine e in genere nel post esotismo è molto complessa. Sull’argomento sono state scritte pagine e pagine di dottissimi saggi, così come sugli eteronimi, sulla coralità delle voci, sull’esplosione dei punti di vista, sull’andirivieni dei piani narrativi, sulla torsione del tempo e dello spazio. Nel mio caso, le difficoltà, come spesso accade nel tradurre dal francese all’italiano, si sono poste ad esempio nella resa della forma impersonale che, a seconda del contesto, può essere sciolta, come tutti sanno, in una prima persona plurale o in un impersonale riflessivo o anche in una seconda persona singolare. Queste opzioni non sono mai intercambiabili e la scelta di una o dell’altra imprime un’angolazione fortissima al testo. La scena onirica dell’attraversamento della vecchia foresta, ad esempio, all’inizio del romanzo, tutta giocata sull’impersonalità del soggetto che parla a nome di noi tutti, è un tour de force sintattico che in una sorta di lungo piano sequenza prende per mano il lettore precipitandolo in un angoscioso sdoppiamento dell’Io. Ho esitato a lungo tra un “tu” generico e un riflessivo impersonale e ho finito per optare per questa seconda ipotesi. Il registro dunque si alza e quel verbo riflessivo senza nome e senza volto ci stringe a sé in un abbraccio mortale e definitivo. Oppure nella scena del treno, dove i prigionieri e le guardie a un certo punto si scambiano i ruoli e tu lettore ti ritrovi improvvisamente a fare parte degli uni o degli altri. In quel caso ho usato una prima personale plurale, inaspettata, sconvolgente: «eravamo stanchi, guardavamo fuori attraverso le fessure delle porte» ecc. Come a dire: non te l’aspettavi, ma ci sei finito anche tu nell’inferno del treno. Come diceva un grande del nostro recente passato, «in quel bacio la bocca sei tu».
I miei tanti scambi epistolari con l’autore non hanno riguardato, però, quasi mai questo genere di scelte sintattiche, tutte interne alla resa italiana. Hanno semmai affrontato questioni terminologiche legate alle piante mutanti o alla creazione di neologismi che traducessero inedite strutture narrative legate al post esotismo: narrats e entrevoûtes ad esempio, che ho tradotto rispettivamente con “zaconti” e “intrarcane”. Il primo termine, narrats, rimanda, nelle parole dell’Autore, a un’«istantanea che fissa (come su una lastra) una situazione di conflittuale contiguità tra realtà e memoria, tra immaginario e ricordo». I narrats sono dunque delle schegge di romanzo, minuscoli testi che contengono una sorta di corto circuito narrativo tra ricordo e realtà, tra reale e immaginario. Hanno in sé anche qualcosa di arcaico, di primitivo che ho cercato di esprimere col termine “zaconti”, che ha un sapore di novella medievale, ma che riecheggia anche Lo cunto de li cunti, e il cui suono fa pensare a qualcosa di antichissimo e di magico, non so perché ma mi veniva in mente zigurath, e contiene un riferimento chiaro al termine racconto, così come, in francese, al termine narration.Il caso di entrevoûtes è, poi, anche più complesso. Bisognava trovare un termine che contenesse una componente architettonica (l’arco, o la volta), che esprimesse un senso di ammaliante mistero (arcano) e che rimandasse a una cerchia esclusiva di iniziati (inter nos): “intrarcane” mi è parso convincente ed ha riscosso la generosa approvazione dell’Autore.
Un discorso a parte va poi fatto per le serie di piante fantastiche che il protagonista Kronauer, incontra nella sua traversata della taiga. Qui Volodine è stato chiarissimo: avevo massima libertà, purché il risultato non fosse ridicolo o suonasse falso e purché la “musica interna” della sequenza venisse rispettata. Devo dire che mi ci sono divertita moltissimo. A volte si riusciva a risalire ad una pianta reale o a un termine noto che veniva poi distorto, “irradiato” e trasformato in qualcos’altro, ma che conservava comunque un sapore, un gusto dell’antica origine, come la pituitania (che rimanda a pituataria) o la sciacquorina (che rimanda al lavaggio di disgustose deiezioni) o la biattola, che sovrappone piattola e blatta. Ci sono piante erotiche (la godifoglia) o altezzose (la mortaccina dal gran ciuffo), piante estatiche come l’estasia divina o l’eresia luminosa, piante rigonfie di linfa, tributarie di polle d’acqua, come la gorgogliona dei poverelli o le lancelotte, piante ostiche e ritrose come le scorzamare e così via… Più difficile è stato rispettare le sequenze onomatopeiche delle piante scricchiolanti e fruscianti come nella sequenza «crepitio dell’ottilia del fieno, dell’ottilia maggiore, della pipigrilla o strepinaglia, monotono sibilare della racoltina rovinosa», dove ho cercato di accumulare suoni puntuti, irti di “i” e mi sono divertita a giocare con la parola pipistrello che compariva scomposta, in filigrana, nell’originale francese.

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