Showboat, la vita di Kobe Bryant

Mamba Forever

Dalla nuova prefazione di Roland Lazenby al suo libro dedicato a Kobe Bryant, scomparso il 26 gennaio 2020 insieme alla figlia Gianna e ad altre sette persone, coinvolte nel tragico incidente in elicottero a Calabasas, California.

«Nel 2016, ho pubblicato Showboat, la vita di Kobe Bryant.
Dopo i tragici fatti del 26 gennaio 2020, un lettore israeliano mi ha mandato un messaggio dicendo che il libro gli era piaciuto.
“Certo non pensavamo che si sarebbe trasformato così presto in un’opera in sua memoria” ha aggiunto, triste.
All’indomani dell’incidente in elicottero che ha ucciso Kobe Bryant a soli quarantun anni, sua figlia Gianna di appena tredici e altre sette persone, milioni di fan in tutto il mondo sono rimasti attoniti e in cerca di risposte.
“Come sarà ricordato?” mi hanno chiesto spesso durante il fiume di interviste che ho rilasciato in seguito a questi eventi strazianti.
“Beh,” ho pensato «sono innumerevoli le cose che nel cuore dei tifosi di basket di tutto il mondo apparterranno per sempre a Kobe” .
Il numero 8, per esempio.
E il 24.
Suoi per sempre saranno i soprannomi “Mamba”, “The Kid”, “Kobester” e, sì, perfino “Showboat”, il nomignolo che gli aveva dato Shaq e che Kobe detestava.
Suo sarà lo Staples Center e grande parte della Nba che verrà, certi meccanismi del gioco e certe idiosincrasie legate a questo sport».

 

Contributi da «A Celebration of Life for Kobe and Gianna Bryant»

 

Il cuore di Kobe Bryant

di Michele Martino
(pubblicato su minima e moralia il 12 gennaio 2018)

 

È il gennaio del 2000. L’alba di una nuova èra. In una saletta riservata dello Staples Center, il tempio del basket di Los Angeles, ha luogo il primo rendez-vous (in abiti civili) tra Michael Jordan e Kobe Bryant. L’incontro è propiziato da Phil Jackson, convinto che il vecchio campione possa insegnare al giovane come rimanere nel «flusso», lasciando che sia «il gioco ad andare da lui», senza incaponirsi a voler fare sempre tutto da solo. Così, dopo una partita contro Denver, Kobe si siede su un divanetto ad aspettare l’arrivo del suo idolo. Poi, vedendo entrare Michael accompagnato dal coach, si presenta così: «Lo sai che uno contro uno posso farti il culo in qualsiasi momento».

Non a caso lo chiamavano «Showboat»: istrione, spaccone, pallone gonfiato, buffone – un fenomeno, insomma, in entrambi i sensi, da baraccone o di caratura eccezionale. Il soprannome era una trovata di Shaquille O’Neal, due metri e sedici, uno degli atleti più devastanti della storia, ma anche un tipo arguto, con la lingua affilata. Aveva perfino composto una canzone, rielaborando Greatest Love of All di Whitney Houston. Si metteva in mezzo allo spogliatoio e intonava: «I believe that Showboat is the future / Call the play and let the motherfucker shoot…». Kobe ovviamente non gradiva né la canzone né il nomignolo, che a poco a poco sarebbe stato soppiantato da altri più lusinghieri.

Ora però quel suo antico soprannome è riesumato da Roland Lazenby, fin dal titolo del suo Showboat, la vita di Kobe Bryant (66thand2nd, traduzione di Giulia Vianello). Un titolo che non vuole essere oltraggioso, ma offrire una chiave per esplorare le radici della smisurata ambizione di Bryant, riannodando i fili che legano la sua carriera a quella di Shaq, di Phil Jackson e dell’onnipresente Jordan. Nessuno poteva farlo meglio di Roland Lazenby, che ha già firmato la monumentale biografia di His Airness (Michael Jordan, la vita, 66thand2nd, 2015, traduzione di Giulio Di Martino) e a cui sarò sempre grato per avermi dato la possibilità di ripercorrere, dalla redazione di 66thand2nd, l’avventura di questi due personaggi debordanti – larger than life, come dicono dalle loro parti.

Della vita pubblica di Bryant si sa tutto, in teoria, ma basta leggere qualche pagina di Showboat per capire perché Kobe sia considerato «uno dei grandi enigmi dello sport americano», un uomo dalla personalità indecifrabile, un agonista compulsivo, maniacale: una «specie di guerriero ninja» capace di dominare sul parquet, ma anche di farsi «comandare a bacchetta» da due donne manipolatrici (prima la mamma, poi la moglie). Lazenby ce ne restituisce un ritratto contrastato, amalgamando in una narrazione incalzante i racconti di una lunga teoria di testimoni, dai compagni di scuola agli amici di famiglia, da Tex Winter a George Mumford, dal magazziniere dei Lakers all’ex patrigno della moglie.

E Showboat è la parola arcana con cui l’autore cerca di catturare le tante sfaccettature e ambiguità del suo protagonista, e di registrare la scollatura tra la sua essenza e la percezione del pubblico. Da un lato, Showboat è Kobe da giovane: l’ombroso teenager che sbarca a L.A. ed entra subito in rotta di collisione con il gigante O’Neal, rivelando una «vocazione al conflitto» che segnerà tutta la sua carriera. Dall’altro, è la radiografia più esatta del cuore di Bryant. Che non è mai stato abitato dall’umiltà, né dalla paura di fallire che attanaglia il resto del genere umano.

Il suo tallone d’Achille semmai era un altro: la sicurezza illimitata nei propri mezzi tendeva a sconfinare nell’arroganza, che somigliava al meccanismo di difesa di un adolescente scaraventato in un mondo di adulti. E quell’arroganza, unita a una precoce esposizione mediatica, finì per isolare ancora di più un carattere già solitario, spigoloso, che gli guadagnò da subito un numero uguale di tifosi e detrattori. Milioni di fan e milioni di hater, per i quali Kobe era solo un figlio di papà viziato e presuntuoso. Un ragazzo ricco cresciuto in Europa che parlava cinque lingue e andava alle scuole dei bianchi. In pochi tolleravano la sua pretesa di essere il migliore. Migliore addirittura di Jordan, di cui si sentiva l’erede legittimo. Di cui scimmiottava le giocate, il modo di parlare, il look, perfino le espressioni e la camminata. Ma di cui, a lungo, non riuscì a uguagliare il carisma.

Quel giorno di gennaio del 2000, contro Denver, con Jordan in tribuna, Bryant segnò 27 punti in un tempo, guidando da solo l’attacco dei Lakers. «Gioco sempre bene quando c’è lui a vedermi» aveva dichiarato a fine partita. «Dovrebbe venire più spesso». Il giorno dopo la stampa lo bacchettò per «essersi fatto bello davanti a Jordan». Il succo delle critiche: non aveva giocato per la squadra, ma per se stesso. Per esibire il proprio talento.

È il ritornello che lo avrebbe accompagnato per anni. Eppure il cuore di Bryant – ci racconta Lazenby – si nutriva della stessa linfa a cui attinse la vecchia Nba, la più sventurata delle leghe sportive americane, ignorata dalla stampa ma salvata negli anni Quaranta e Cinquanta da un pugno di showboat players, tra cui gli Harlem Globetrotters, formidabili cestisti neri che battagliavano in esibizioni spesso segregate, capaci di attirare sugli spalti quel pubblico che disertava le partite ufficiali popolate dai bianchi.

Se la Nba sopravvisse a se stessa fu grazie a loro, e all’introduzione dello shot clock, l’orologio che limita la durata delle azioni offensive. Ovvero lo strumento che trasformò un gioco noioso in uno spettacolo adrenalinico, ideale per le platee televisive. Fu un’idea di Danny Biasone, nato a Miglianico in Abruzzo, uno dei due italoamericani che hanno fatto la storia della Nba. L’altro è Sonny Vaccaro, il demiurgo della mirabolante carriera di Kobe. O, se preferite, il trait d’union tra Kobe e Michael.

Tracagnotto, stempiato, perfetto per un casting di Scorsese, Vaccaro cominciò con le scommesse a Las Vegas, piazzava le puntate per conto di clienti danarosi. In caso di vincita tratteneva una percentuale. Vinceva spesso, perciò qualcuno pensava che avesse legami con la mafia, benché l’unica prova a suo carico qui da noi faccia sorridere: salutava le persone con un paio di baci sulle guance. Poi fondò un torneo di basket riservato ai campionicini delle high school, il Dapper Dan Roundball Classic, che rimase a lungo la vetrina più ambita dalle giovani promesse. Nel 1972 il titolo di Mvp lo vinse un certo Joe «Jellybean» Bryant. Dieci anni dopo, grazie alla vasta rete di contatti che si era creato nel mondo del basket, Vaccaro fu invitato ad assistere alle finali della Ncca, vinte da North Carolina su Georgetown con il tiro decisivo di un diciannovenne di nome Michael Jordan. Quel che segue è noto.

Vaccaro, folgorato, assecondando un’intuizione difficilmente spiegabile in termini razionali, convince i vertici della Nike a puntare tutto il budget dell’azienda su quel ragazzo, anche se non ha ancora giocato un minuto nella Nba. Poi arriverà il logo Jumpman, sfruttando un’immagine del fotografo Jacobus Rentmeester, pubblicata su «Life» per i Giochi di Los Angeles del 1984. Ed è qui, più o meno, che inizia la storia dell’altro ragazzo, di nome Kobe, che allora aveva sei anni ed era in procinto di trasferirsi in Italia per seguire la carriera del padre. Quell’estate, in vista dei Giochi, la selezione olimpica americana, guidata da Michael, affrontava una squadra di professionisti della Nba, capitanata da Magic e Bird. Kobe si piazzò davanti allo schermo per godersi lo spettacolo, e tutt’a un tratto vide un tizio partire in palleggio in contropiede: «spiccò un balzo e andò a schiacciare in testa a un avversario, credo fosse Magic. Nessuno si aspettava una cosa simile. Chi era quel ragazzino? Mi stava antipatico perché Magic era il mio idolo. Credo sia stata quella la prima volta che ho visto Michael».

Da allora, l’obiettivo di Kobe è sempre stato diventare più forte di Jordan. Così, passati altri dieci anni, si presenta baldanzoso al camp di Vaccaro, che nel frattempo ha divorziato dalla Nike e vuole scovare il «nuovo Jordan» per conto dell’Adidas. Kobe è ancora fuori dal radar degli scout, è gracilino, acerbo. È stato invitato solo grazie all’insistenza di Joe. Alla fine del torneo, però, Kobe va da Sonny e lo saluta con due baci sulle guance, come ha imparato a fare in Italia. Poi gli dice: «Stavolta non ho vinto il titolo di Mvp, ma lo vincerò l’anno prossimo». Quella frase mette i brividi a Vaccaro, che in un istante capisce «di trovarsi di fronte al prossimo fenomeno».

L’Adidas, manco a dirlo, si lascia sedurre dal progetto di Vaccaro, e trasforma il ragazzino in una star prima ancora che abbia messo piede al college.

Vaccaro ha un asso nella manica. Contro il parere della famiglia, affida il ragazzo a un agente, Arn Tellem, che ha un unico, grande merito: è un amico fidato di Jerry West, l’uomo ritratto nel logo della Nba, forse il bianco più in gamba che abbia mai preso in mano una palla a spicchi. (O lui o Bird). Ora West è l’executive dei Lakers, di cui è stato per anni la bandiera. Dicono che riconoscerebbe un talento dal finestrino di un treno in corsa. Tellem ottiene un provino con i Lakers. Che West interrompe dopo venti minuti: «Basta così, lo prendiamo». Riconoscere le qualità di un giocatore è facile, sosteneva West, più difficile, quasi impossibile, è vederne il cuore. Quel giorno, West aveva visto il cuore di Bryant.

L’unico ostacolo è che i Lakers hanno la ventiquattresima scelta al draft Nba. Lo stratagemma con cui Vaccaro e West riescono a portare Kobe a L.A. è solo uno dei tanti retroscena – sempre ricostruiti da un prospettiva singolare – che affiorano tra le pagine di Showboat. Ed è proprio da quel «colpo gobbo», osserva Lazenby, che si originano le fortune e la maledizione di Bryant.

Il corteggiamento dei Lakers e, prima ancora, dell’Adidas convincono il ragazzo di avere diritti esclusivi sullo scettro di Jordan, e questo gli alienerà le simpatie del pubblico, che lo vedrà come un usurpatore, o come un prodotto di marketing costruito a tavolino. Il suo modo di parlare, di porsi, l’infanzia passata tra l’Italia e i sobborghi ricchi non lo aiuteranno a essere percepito come «autentico». Tutto il contrario della sua nemesi Allen Iverson, il disobbediente, tatuato come un divo dell’hip hop, arrestato per rissa a diciassette anni in un incidente a sfondo razziale.

Ma era stata l’industria delle scarpe, insieme alla Nba, a spingere Kobe «allo sbaraglio, coccolandolo e addestrandolo a interpretare» il ruolo di nuovo Jordan. La stessa trappola in cui era finito Andre Agassi quando recitò in uno dei primi spot della Nike («Image is everything»). Quella però era solo la facciata di Kobe. La competitività e il talento erano la sua essenza – «il vero Kobe» –, non la sua imitazione esteriore di Jordan, «favorita dalle circostanze, e alimentata dalle sue fantasie giovanili».

Milioni di ragazzini della generazione di Kobe, continua Lazenby, sognavano di essere «like Mike». Ma Kobe è l’unico che ha avuto la «ferrea volontà e la determinazione» per seguirne le orme, e alla fine è riuscito addirittura a fare un po’ d’ombra a Jordan. All’inizio nessuno lo riteneva possibile, soprattutto dopo quei quattro tiri balordi che costarono ai Lakers l’eliminazione dai playoff del 1997, al termine della sua prima stagione da pro. A diciannove anni, dopo il tiro vincente contro Georgetown, Jordan era già un eroe nazionale. Alla stessa età Bryant era in crisi con se stesso, con la squadra, con la stampa. Dei cronisti che lo massacravano per quegli errori, disse: «Possono anche andare affanculo. Nessuno aveva il coraggio di tirare». Nessuno, a parte lui, avrebbe potuto rialzarsi dopo un esordio simile.

Da lì in avanti, i tiri allo scadere sarebbero diventati la sua specialità. Inutile elencare il suo palmarès, i cinque anelli, le stagioni pirotecniche, gli 81 punti contro Toronto. Il dibattito sui regolamenti. Nel libro c’è tutto, insieme a quello che accadeva dietro le quinte. Come le «lacrime di Philadelphia», versate dopo i fischi ricevuti all’All-Star Game del 2002. Molti li attribuirono alle Finals dell’anno precedente, quando Kobe aveva infierito sui Sixers, la squadra della sua città, guidata da Iverson. In realtà quei fischi erano la risposta di Philadelphia al trattamento che Kobe aveva riservato ai genitori.

Già, perché sull’altare della propria ossessione Kobe ha sacrificato chiunque gli intralciasse il cammino. Sul campo, nello spogliatoio, perfino in famiglia. «Li ha eliminati tutti, uno ad uno, come hanno fatto i russi con i Romanov» ricorda Sonny Vaccaro. Ha cancellato dalla propria vita il padre Joe, reo di averlo trascinato in un’impresa folle, l’acquisto dell’Olimpia Milano. Stessa sorte è toccata alla madre Pam, colpevole di uno sbaglio ancora più grave: aver tentato di separarlo da Vanessa Cornejo Urbieta. Una ragazza di origini messicane, povera, giovanissima ma già abile a orientare le scelte del futuro marito.

Una ragazza innamorata, di Kobe o del ruolo di signora Bryant, chissà, ma senz’altro abbastanza tosta da resistere a un adulterio, aggravato dalle accuse di violenza sessuale, che rimbalzò sui media come non succedeva dal caso di O.J. Simpson. Ai tempi di #metoo il finale sarebbe stato diverso? Difficile dirlo. Fatto sta che, al contrario di Derrick Rose o Robinho (tanto per citarne due), Kobe ne uscì pulito e più forte di prima: cambiò numero di maglia, agente e sponsor (sobillato da Vanessa, per cui l’Adidas non era cool), si aprì ai tatuaggi, si circondò di guardie del corpo e s’inventò un nuovo soprannome – «Black Mamba», come il serpente di Kill Bill – per esorcizzare il suo lato oscuro, feroce.

E non esitò a smantellare una delle squadre più vincenti della Nba, i Los Angeles Lakers del three-peat 2000-2002, da cui estromise – con la complicità di Jerry West – sia Shaquille O’Neal sia Phil Jackson. «Non potevo più giocare con Shaq,» ammetterà anni dopo a un giornalista «perché dovevo dimostrare a voi stronzi che potevo vincere anche senza di lui».

Le lotte per il potere all’interno della franchigia californiana, tra agguati, tradimenti e scontri campali, sono forse la parte più gustosa del libro di Lazenby, ricostruite come le fosche trame di una corte rinascimentale, o gli intrighi di una stagione completa del Trono di spade (Game of Thrones si chiamava, non a caso, uno dei capitoli della bio di Jordan, in cui si narravano analoghe traversie a Chicago).

E poi, appunto, c’è Jordan, che rimane il modello ineludibile dell’avventura di Kobe. Jordan è l’ultima maledizione di Kobe, di cui mai potrà liberarsi, nemmeno appendendo al chiodo la casacca dei Lakers (ritirata ufficialmente lo scorso 18 dicembre, con l’8 e con il 24). Il confronto tra quei due continuerà a riproporsi all’infinito, almeno nelle elucubrazioni dei tifosi. Lazenby non si arroga il diritto di risolvere il dilemma, però dissemina indizi. E alla fine, assemblando i tasselli sparsi tra le due biografie, il quadro è abbastanza chiaro. Se vi aggiungiamo l’impeccabile analisi di Phil Jackson nel suo Eleven Rings (Libreria dello Sport, 2014, traduzione di Dario Vismara), si fa addirittura esauriente, definitivo.

Non vi toglierò il piacere di scoprirlo da voi, rimettendo in ordine i pezzi. L’elemento cruciale, però, è umano, non tecnico. Michael era cresciuto giocando a basket uno contro uno con il fratello, che era un anno più grande e gli rifilava sonore bastonate. Per lui il basket è sempre stato la replica di una «lotta tra fratelli». Nei Bulls, amava circondarsi del suo clan, composto di vecchi e nuovi amici, con cui passava le serate a fare a cuscinate nelle camere d’albergo e a inscenare ogni sorta di prova di virilità. Era quella la sua forza. Kobe è cresciuto misurandosi uno contro uno con il padre, e con le immagini dei campioni del passato che ammirava nei Vhs che gli spediva il nonno dall’America. Ha giocato centinaia, forse migliaia di partite nella sua fantasia, prima che sul campo. Era tutto preso dal suo sogno, perso nella sua immaginazione.

Per questo molti lo consideravano un illuso. In pochi credevano che un giorno avrebbe retto davvero il paragone con Jordan. Era opinione condivisa che la storia del basket, o del Novecento cestistico, fosse finita nel giugno del 1998 a Salt Lake City. Kobe è riuscito a prolungare quella storia fino all’aprile del 2016, congedandosi con un ultimo colpo di teatro, 60 punti allo Staples Center. Tutto il resto è cronaca del Ventunesimo secolo.