L’Uragano nero

Jonah Lomu, vita morte e mete di un All Black

Riproponiamo qui l’articolo di Gabriele Santoro sul libro L’Uragano nero di Marco Pastonesi, pubblicato su minima & moralia il 28 ottobre 2016.

 

All’inizio del 1989 l’uragano nero, quando varcò per la prima volta la soglia dell’ufficio di Chris Grinter, non era altro che un tredicenne, uno dei tanti ragazzini di strada dal sobborgo Greenlane, nella parte sud di Auckland, la città più popolosa della Nuova Zelanda. «Forse era fisicamente un po’ più grande dei suoi coetanei, ma la sua futura magnificenza e abilità atletica non apparivano ovvie», ha raccontato l’allenatore del Wesley College. In cinque anni poi Jonah Lomu ha colto di sorpresa il mondo, ha cambiato il gioco con la palla ovale, inscrivendo al vento l’immortalità di chi fin da bambino custodisce almeno due sogni: giocare un mondiale, e vincerlo.

Nel 1995 Nelson Mandela tentava di ridisegnare le linee di confine e infrangere le convenzioni anche nel rugby, tenendo però insieme il Sudafrica. E c’era una Coppa del mondo per mostrare la reificazione dell’idea di un paese oltre la lacerazione dell’apartheid. Fuori dalla Nuova Zelanda in pochi avevano potuto intuire la strapotenza di Lomu, che inanellava record di velocità e quindicenne si laureava campione nazionale, fino a bruciare i tempi di contatto con gli All Blacks.

 

 

Marco Pastonesi, giornalista e scrittore, non ha mai nascosto la propria predilezione per i gregari. «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano, nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei», ha ammesso nel prologo della biografia onesta Pantani era un dio. Ora con L’Uragano nero. Vita, morte e mete di un All Black (66thand2nd, 184 pagine, 18 euro) torna a misurarsi con un uomo dall’esistenza più larga della vita. E lo fa col suo stile, quello dei talenti che hanno l’urgenza narrativa della provincia e se ne nutrono. Raccontando Lomu, sì, si può finire dentro all’Istituto penale minorile Cesare Beccaria a Milano, dove il rugby grazie all’Asr Milano significa redenzione.

Pastonesi, seguendo i passi dell’anima del campione scomparso, ci guida in tanti altrove del rugby che «è l’unico sport ad aver mutuato il nome dalla città dove è nato come un urgente bisogno di identità, terra, radici. Vissuto come una religione fra credi e credenze, riti e rituali, culti e comandamenti. (…) Non è una disciplina semplice: presuppone strategie e gerarchie, impone tattiche, stabilisce limiti, custodisce storie, detiene perfino segreti indispensabili per incanalare la forza fisica ed esaltare le intuizioni mentali».

Un italiano, Vittorio Munari, cacciatore di talenti per il Petrarca Padova, rimase subito abbagliato dal giovanissimo Lomu. Era bello come Cassius Clay all’Olimpiade di Roma nel Sessanta: centodiciotto chili senza un’oncia di grasso, sempre pronto, seppure di carattere riservato. Il rugby l’aveva conosciuto solo sulla strada, dove mitigava il dolore di una famiglia segnata dalla violenza paterna. Col padre, Semisi, pescatore e poi meccanico, stravolto dall’abuso di alcol, si ritroverà dopo 17 anni solo a poche settimane dalla morte di quest’ultimo. Lui e la madre, Hepi, erano originari di una delle 169 isole dell’arcipelago di Tonga, emigrati poi in Nuova Zelanda. Non c’è stato nulla di facile nell’esistenza di Siona Tali Jonah, nato il 12 maggio 1975, neppure il parto. Affidato alla sorella della madre, Longo, e al marito, Moses, l’infanzia assomiglia a una fuga dal mondo a Tonga nell’arcipelago di Ha’apai, nell’isola di Lifuka, nel villaggio di Holopeka: un luogo magico, primitivo dove il rapporto con la natura non è mediato. Non c’era neanche la scuola.

A sette anni rientrò a casa, e di quella libertà non vi fu più traccia. C’era il rumore silenzioso della violenza domestica, col padre che ubriaco si accaniva sui figli e sulla moglie nel degrado di South Auckland. Alcolismo e violenza marchiano il sottoproletariato maori. Lomu apre la propria autobiografia (Jonah – My story, 2013) posando lo sguardo sulla rabbia per quegli anni, sul giorno in cui ormai quindicenne disse basta e fermò a mani nude il padre.

Pastonesi ci ricorda che il rugby è forza, non violenza, aggressività, non cattiveria. Potenza non prepotenza. E questo sport, in cui la geometria e le strategie si piegano spesso al rimbalzo anarchico dell’ovale, tirò fuori dai guai l’adolescente Lomu, invischiato in pessime compagnie: «Senza il rugby sarei finito morto o in galera». Hepi lo iscrisse al Wesley College, che dal 1884 ha accolto ed educato studenti fondamentali per la storia del rugby negli All Blacks.

«La meta è sempre considerata il risultato di un’azione di squadra, e il merito è sempre diviso per quindici finché non appare Lomu», scrive l’autore. Nessuno era in grado di abbinare quella velocità a quella stazza. Ai campionati studenteschi ilragazzone vinceva tutte le gare di velocità, dominando in realtà anche nelle altre discipline, dal salto triplo al getto del peso. Chris incanalò la sua rabbia, lo fece sfogare comprandogli un sacco per boxare. Lomu copriva la distanza dei 100 metri in 10”89. Riformulerà poi i fondamenti del ruolo di tre quarti ala con la corsa da figlio del vento e le acrobazie. E soprattutto sfondava: distruggeva i placcaggi.

Nell’esordio scolastico in prima squadra debuttò nel pacchetto di mischia da terza ala, ruolo in cui si gode di maggiore libertà, che esaltava la sua velocità ed esprimeva la sua energia. Sono trenta le mete segnate in 17 partite al Wesley College, che sorge in una splendida area verde, di cui divenne capitano e rappresentante. Nel 1991 disputò il primo match internazionale con la selezione Under 17 della Nuova Zelanda. Tre anni più tardi salutò le certezze del College, trovando squadra nei Counties Manukau e lavoro nella Auckland Savings Bank.

Laurie Main, l’allenatore degli All Blacks, si accorse del suo talento proprio con quella maglia e lo scatto fu breve: «Nel 1994 sapevamo che Jonah non era ancora pronto per quel livello di rugby, ma le nostre aspettative erano realistiche. C’era un potenziale straordinario in quel ragazzo per realizzare qualcosa di spettacolare, di inatteso nella Coppa del mondo del 1995». L’ultima domenica del mese di giugno 1994 a Christchurch, Lomu a 19 anni e 45 giorni, il più giovane debuttante in un test match, divenne l’All Black numero 941 nella sfida Nuova Zelanda-Francia. La prima partita ufficiale, di quelli che poi risponderanno al soprannome All Blacks, è stata disputata al Newton Park di Wellington contro il Wellington XV, giovedì 22 maggio 1884, vinta 9-0. Centotré anni dopo la squadra in nero si è aggiudicata la prima edizione della Coppa del mondo.

Pastonesi riporta un passaggio interessante dal libro Quello strano rimbalzo di Peter Freeman: «In nessun altro paese dell’ex impero britannico il rugby ha legato in maniera tanto profonda due popoli, quello dei colonizzatori e quello dei colonizzati. Laggiù nella terra più distante di tutte è accaduto qualcosa di speciale e di unico: è nata una relazione». Il rugby è un elemento culturale inscindibile dalla nazione neozelandese, sono cresciute insieme. Domina i mezzi di informazione: «In Nuova Zelanda il rugby è tutto: religione, mito, leggenda». Il primo rugby club neozelandese a Wellington fu fondato l’anno precedente, 1870, alla prima partita internazionale di rugby della storia, Scozia- Inghilterra.

Lomu era un ragazzone di indole riservata. Timido agli esordi, discreto davanti ai campioni affermati della selezione nazionale. Nel 1995, convocato solo al terzo raduno degli All Blacks in vista della terza edizione del Mondiale, compì il salto in prima squadra dopo l’infortunio dell’amico Eric Rush, vittima di uno stiramento muscolare. E sovvertì le gerarchie.

Era il 18 giugno 1995, e il telecronista neozelandese Keith Queen, con trent’anni di onorata carriera alle spalle, s’impappinò perché non credeva a quel che vedeva. Erano trascorsi appena tre minuti dall’inizio della partita perfetta, la semifinale Nuova Zelanda-Inghilterra al Newlands Stadium di Città del Capo, 51mila spettatori, tutto esaurito. Nell’altra semifinale al Kings Park di Durban gliSpringboks avevano già battuto la Francia 19-15 per riscrivere la propria storia.

Lomu ha il possesso completo del pallone, e Pastonesi descrive, si sofferma: «Il terzo passo sinistro-destro è un capolavoro d’arte, fra danza e pittura, così leggiadro e muscolare, teorico e scultoreo, un passo incrociato, si direbbe, il piede all’interno per fronteggiare, il piede sinistro all’esterno per sfuggire, il pallone protetto a sinistra». Non lo si può fermare. L’ultimo appoggio è sul piede sinistro a un paio di metri dalla linea di meta. I passi saranno venticinque, tre placcaggi evitati, sette secondi di tempo per la meta più celebrata. Lui segnerà altre tre mete e la partita finirà 45-29.

Poi, come sottolinea l’autore, non si parlerà mai abbastanza della finale di sabato 24 giugno 1995 all’Ellis Park di Johannesburg, dove nonostante la sconfitta Lomu è di fatto divenuto un’icona della cultura di massa su scala globale. Alla fine del 1995 è nominato BBC Overseas Sports Personality of the year, in compagnia fra gli altri di Pelé, Ali e Borg: «La mia vita è cambiata per sempre dopo la Coppa del mondo, non ero preparato per una vita intera sotto i riflettori. Non ero appena diventato il giocatore di rugby Jonah Lomu, ma il prodotto Lomu». Il rapporto con il manager Phil Kingsley Jones, accusato di aver tradito la sua fiducia, è stato complesso fino alla rottura.

Marca un salto d’epoca cruciale: il nessuno come lui equivale anche al graduale passaggio dal dilettantismo al professionismo: «Lomu segna idealmente il passaggio del rugby dagli osti agli avvocati. Il professionismo cambia la storia. Da questo momento i giocatori hanno tempo e soldi per allenarsi anche due volte al giorno, guadagnano chili, incrementano la velocità e migliorano la tecnica, ma perdono in sostanza. Sostanza umana, più si va avanti e si perde sostanza in racconti, in avventure, in storie».

Pastonesi ci conduce nella Betlemme ovale, la città di Rugby, centotrenta chilometri a nord-ovest di Londra, alle origini del gioco ed è un modo per tornare a casa quando ci si sente smarriti. Induce alla riflessione sull’evoluzione della disciplina: «Oggi i giocatori sono spesso omogeneizzati dalla carriera agonistica e allineati nelle banalità imposte dai procuratori, club, federazioni o perpetrate dalle tv o imitate dal calcio. Prima del professionismo ogni giocatore, medico o minatore che fosse, aveva sempre una storia bellissima da raccontare».

La storia di Jonah abbaglia per come ha resistito alle rovine, alla malattia di causa ignota. Colpito nel cuore della sua bellezza atletica, già nel 1996, appena affacciatosi sul proscenio mondiale. L’incredibile paradosso della spossatezza per un essere all’apparenza indistruttibile. Si sottopone a cure durissime, deve convivere con la malattia. La biopsia aveva sentenziato sindrome nefrosica. È stata questione di andate e ritorni coraggiosi. Gioca, risorge, per poi doversi fermare. Nel 2003 la dialisi lo placca tre giorni a settimana, sei ore al giorno. Il 28 luglio 2004 affronta il trapianto di rene, donato dall’amico Grant Kereama, che gli restituisce una vita fino al rigetto. Nel 2005 firma un contratto biennale in Galles, che lo accoglie con passione. Il ritiro arriva nel 2007 con il pressoché contestuale ingresso nella Hall of fame.

Lomu, una vita sentimentale ingarbugliata, si è sposato tre volte, la prima appena ventenne con una diciannovenne sudafricana, l’ultima nel 2011 dopo una relazione cominciata da amanti con Nadene Quirk, madre dei due figli Brayley e Dhyreille: «Voglio dare ai miei ragazzi un’infanzia migliore di quella che ho avuto io. Voglio che crescano non viziati ma con le opportunità che dovrebbero avere».

È apparso in video e in tribuna l’ultima volta alla Coppa del mondo 2015 in Inghilterra. E non resta che guardare e riguardare la commovente haka funebre, che il 30 novembre ha unito all’Eden Park di Auckland quel che resta con quello che va via. C’è una bella fotografia, scattata nel 1994. Lomu è nello spogliatoio di Christchurch, prima del test match contro la Francia, e sembra assorto in preghiera. Gli hanno appena consegnato la prima maglia All Black, e la stringe forte:

«Posso comprendere le critiche. Mostrano l’attenzione e la cura delle persone per la mia condizione. In pochi capiranno perché abbia voluto continuare a giocare in tutti questi anni, la ragione per cui voglia farlo ancora. La maggior parte delle persone non sanno cosa vuol dire indossare la maglietta nera. Voglio farlo ancora. Non è una questione di soldi. Intendo lasciare il gioco a modo mio, nei miei termini. Qualora i dottori dicano che posso scendere in campo dopo il trapianto, giocherò».

(Gabriele Santoro, novembre 2016)