La strada del coraggio

Bartali, il giusto

«Gino Bartali il pio è stato anche lo sfortunato» scriveva anni fa Gian Paolo Ormezzano del fuoriclasse di Ponte a Ema, definendolo un «personaggio mai dolente, ma sempre ringhiante, un personaggio glorioso e rabbioso». Un altro, probabilmente, al posto di Bartali si sarebbe servito del proprio ingrato destino per dipingersi allo stesso tempo come vittima e trionfatore, in un mondo come quello del ciclismo dove «la jella viene ancora riconosciuta e rispettata, come una stimmata».

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Gino Bartali in azione sulle montagne del Tour

La sfortuna di Bartali ebbe facce diverse, ma tutte insidiose. Perse giovanissimo il fratello durante una corsa per dilettanti. Stessa sorte  toccata a Coppi quindici anni più tardi, ma Coppi era già Coppi quando morì Serse, mentre Bartali non era ancora Bartali quando perse Giulio: aveva appena iniziato a correre da professionista e quella tragedia, che avrebbe potuto spezzare sul nascere la sua carriera, sarebbe stata rimossa e dimenticata dall’opinione pubblica. Era poco più di un ragazzo, e Gino era già chiamato l’«uomo di ferro», uno dei suoi tanti soprannomi, che evoca l’immagine di un’atleta tenace, indomito, indistruttibile, che non può permettersi cedimenti né paure. Fu addirittura criticato quando, al Tour del ’37, dovette ritirarsi per le conseguenze di una caduta rovinosa  – in maglia gialla, era volato sopra la spalletta di un ponticello finendo dentro un gelido torrente di montagna. E nessuno pensò che con un pizzico di fortuna in più (appunto) sarebbe diventato il primo uomo al mondo a vincere Giro e Tour nella stessa stagione.
Bartali ebbe anche la sfortuna di aiutare il suo gregario, Fausto Coppi, a strappare con i denti la vittoria al Giro del ’40. Poi per cinque anni la corsa rosa non fu più organizzata e Coppi sarebbe stato celebrato per sempre come «quello a cui la guerra ha rubato tanta carriera» anche se, a dire il vero, fu proprio Bartali a vedersi sottratti gli anni della piena maturità agonistica di un ciclista, quelli dai ventisei ai trentadue.
La sfortuna più grande, naturalmente, è stata quella di affrontare un avversario straordinario (il più grande di ogni epoca?) in una posizione di notevole svantaggio: giunto ormai a fine carriera, invecchiato, Bartali si misurava ogni giorno contro un ciclista più giovane e più moderno (nei metodi di allenamento, nell’alimentazione, nelle tattiche di gara, nell’interpretazione del calendario delle corse). Una sfida impari la cui difficoltà si sarebbe ingigantita, paradossalmente, dopo la scomparsa di Coppi, quando Bartali fu costretto ad assumere la parte scomoda del nemico di uno che non poteva difendersi più. L’acerrimo rivale di un atleta che la morte precoce aveva già trasformato in leggenda.
Non si tratta, dunque, di sfortune di poco conto, come una foratura – anche se fu proprio una banale foratura a fargli perdere, con tutta probabilità, il Tour del ’49, a vantaggio del solito Coppi che realizzò quell’anno la prima accoppiata Giro+Tour della storia. Si tratta proprio, come sostiene Ormezzano, di «jelle cosmiche e filosofiche». Ma né la guerra, né l’ingombrante presenza di Coppi hanno impedito a questo atleta formidabile di mettere insieme uno dei palmarès più illustri di sempre, che include tre Giri d’Italia e due Tour de France (vinti a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, impresa mai riuscita a nessun altro…).

Da quest’anno, però, il personaggio di Gino Bartali – Gino il pio, l’uomo di ferro, Ginettaccio, o comunque lo si voglia chiamare – si arricchisce di una nuova dimensione, rimasta nascosta per decenni. A settembre 2013, pochi giorni prima dei Mondiali di ciclismo disputati per la prima volta proprio in Toscana (e onorati con una gara d’altra tempi), lo Yad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme, ha riconosciuto a Bartali il titolo di Giusto tra le nazioni.

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A sinistra: un ritratto giovanile di Bartali, con dedica a Giorgio Goldenberg, ebreo di origine fiumana salvato dal campione. A destra: un’immagine di Gino con la maglia tricolore di campione italiano

Non è il primo uomo di sport a ricevere questo titolo prestigioso (benché si contino su una mano), ma è il primo ciclista e soprattutto il primo atleta italiano, che si unisce al ristretto gruppo di nuotatrici, calciatori, ginnasti (olandesi, polacchi, lituani…) che lo hanno meritato in passato. Bartali avrebbe salvato almeno seicento ebrei italiani dai rastrellamenti nazifascisti, trecentotrenta in Toscana e trecento in Umbria (ma altri parlano di ottocento persone): un contributo altissimo che è valso a «Ginettaccio» la medaglia al Valor civile, conferita con cerimonia postuma nel 2006 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ed è su questa dimensione segreta, oltre che sulle pietre miliari di una carriera eccezionale, che si concentra La strada del coraggio dei fratelli canadesi Aili e Andres McConnon. La novità del loro ritratto del grande ciclista toscano – il primo in lingua inglese – risiede, infatti, nell’accurata ricostruzione dell’attività clandestina che Bartali condusse durante la guerra, a partire dall’autunno 1943, grazie a una intuizione dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa (il consigliere spirituale del campione, il cui matrimonio fu celebrato nel ’40 proprio da Dalla Costa). Un’attività di cui ha scritto di recente anche Adam Smulevich su «Pagine Ebraiche», contribuendo al riconsocimento dello Yad Vashem israeliano.

La «strada del coraggio» cui allude il titolo dei McConnon è appunto quella che Bartali percorreva ogni giorno – con la speranza che la notorietà lo proteggesse dai controlli delle pattuglie fasciste – pedalando da Firenze a Assisi per uno scopo ben più nobile che un semplice traguardo sportivo. Di questa attività segreta Bartali non parlò quasi mai in vita: un’ennesima dimostrazione del riserbo e dell’umiltà del campione, che nonostante la linguaccia e la fama, meritata, di piantagrane, non lucrò mai nemmeno sull’altro celebre episodio «politico» della sua carriera, l’attentato a Togliatti e la presunta guerra civile scongiurata dal trionfo al Tour del 1948.

(Michele Martino, maggio 2013)