Il ring invisibile

1955-1964: Ali prima di Ali

Il 28 agosto 1955 il quattordicenne Emmett Till viene brutalmente assassinato a Money, Mississippi, per aver osato guardare negli occhi una donna bianca. Un macabro delitto che sconvolge l’opinione pubblica americana (Bob Dylan dedicherà una celebre canzone a Emmett) e segna uno spartiacque nella storia della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti – oltre che nella vita del giovane Cassius Clay, il futuro «The Greatest of All Time», rivisitata da Alban Lefranc nell’ultima delle sue biografie immaginarie, Il ring invisibile.

Emmett Till era svenuto.
Gli avevano appeso una sgranatrice di cotone intorno al collo, una macchina pesante, erano andati a prenderla nel camioncino. Avevano trascinato il suo corpo esanime fino alle rive del fiume Tallahatchie.
Si erano lavati a lungo le mani nel fiume Tallahatchie.
E siccome avevano ancora una faccia sulle spalle, ciascuno una faccia diversa, ciascuno la sua, si erano lavati anche quella, labbra, occhi, fronte, naso, perché ciascuno di loro aveva ancora le labbra, gli occhi, una fronte e un naso, tutti diversi, tutti unici.
E dopo essersi lavati bene la faccia, dopo essersela lavata scrupolosamente, avevano legato con il filo spinato la sgranatrice di cotone intorno al collo di Emmett, a filo del collo, proprio sotto quella che fino a poche ore prima era stata la sua testa.

 

 

«La sera mio padre ci parlava di Emmett e ci raccontava in modo accorato il delitto. Continuai a pensare al delitto, fino al giorno in cui mi venne in mente come far pagare ai bianchi la sua morte». Sono le parole con cui nella sua autobiografia The Greatest (1975), l’ormai Muhammad Ali ricorderà l’impatto che ebbe sulla sua vita l’omicidio del piccolo Emmett. «Ascolta Emmett,» invoca Cassius «ascolta la mia promessa: a te che non hai più una faccia, io darò la mia».
E la vendetta comincia a prendere forma nell’estate del 1960, a Roma, quando Cassius Clay conquista l’oro olimpico.

A Roma, il 5 settembre, nell’afa cocente del palazzetto dello sport stracolmo per la finale olimpica, l’impronunciabile Zbigniew Pietrzykowski, otto anni più vecchio di lui, percepisce d’un tratto la verginità del giovane Cassius, il pullulare di labbra rosse e nuche umidicce negli occhi dell’avversario, lo schianto nei suoi reni. Cassius nel frattempo ha circoscritto il problema (specchi, aerei, labbra) e si è ripromesso di risolverlo al più presto, non appena rimesso piede sul suolo americano, convinto com’è che con una medaglia d’oro a brillargli al collo troverà più in fretta la strada verso un paio di labbra. Con il corpo sorretto da questa certezza, Cassius regge le briglie dell’immaginazione, presto avrà la sua parte di labbra e di nuche, lo sa e vince il titolo che gli garantirà la sua parte.

 

Tornato in patria e in procinto di passare al professionismo, sotto la guida del suo primo allenatore, Joe Martin, e la complicità dell’istrionico Bundini, un vecchio amico del padre («il più scatenato, il più ubriaco di tutti»), il giovane Cassius Clay impara a volare come una farfalla e a pungere come un’ape.

Da quando hai tredici anni la tua guardia bassa ti costringe a calcolare tutto per bene. La guardia bassa ti costringe ad avere due corpi: uno visibile e provvisorio, un corpo tentatore, offerto ai pugni dell’avversario, e un secondo corpo già più lontano, il corpo dell’istante successivo, il corpo che anticipa l’affondo a venire, quello con cui sferrerai il tuo contrattacco. […] «Ha un potenziale impressionante» martella Joe Martin nelle orecchie di tuo padre.

 

A pungere come un’ape non solo con i diretti, i ganci, i montanti. Ma anche con la lingua e la poesia.

Cassius impara ad articolare, a lanciare frasi come pugni. Devono essere frasi brevi, vive, sonore, dall’effetto immediato. Lick my ass, you like it bitch, you like it slut sono gli schiaffi più belli del suo repertorio. Per il resto, tra gli esseri confusi che si agitano fuori dal ring, la parola sa solo piangere, nascondere, rimediare, e Cassius ne fa assolutamente a meno.

 


L’incoronazione è vicina: il 25 febbraio 1964, a Miami, lo sfidante Cassius Clay, lo sbruffone di Louisville, affronta l’invincibile Sonny Liston. Non prima di averlo sbeffeggiato in pubblico.

Ci sono gli ultimi minuti e adesso tocca a me, ci sono gli ultimi minuti ed esco dagli spogliatoi, con Ferdie Pacheco alla mia destra, Gene Kilroy davanti che scatta qualche foto, la mia guardia del corpo Walter Youngblood con un sorriso tutto denti come se stesse per sbafarsi una bella bistecca.
L’incontro è valido per il titolo mondiale.
Ci sono ottomilatrecentotré spettatori.
Ci sono l’arbitro, Barney Felix, e i giudici: Bernie Lovett e Gus Jacobson.
Mi giro un’ultima volta verso gli spogliatoi, verso tutto il tempo che contengono.
Sono le ventidue, cinquantuno minuti e trentaquattro secondi.
Scompaio in mezzo al frastuono.

 

Il re è nato. La vendetta è compiuta.

Ho lasciato entrare la folla nel mio ring, a migliaia, uno dopo l’altro sono passati sotto le corde, perfino bianchi, uno dopo l’altro si sono chinati per intrufolarsi qua e là, a casaccio, appollaiati uno sopra l’altro, accatastati alla rinfusa, a migliaia, ammucchiati alla bell’e meglio, a ridere e gracchiare nel cuore della mia vita.