Le luci di Pointe-Noire

Le luci di Pointe-Noire (uscito in Francia per Seuil a gennaio 2013) rappresenta l’ideale proseguimento di Domani avrò vent’anni (2010), nel quale Alain Mabanckou ritornava con la memoria e l’immaginazione alla sua città natale, rievocandone i personaggi e gli avvenimenti più curiosi e significativi. Nel giugno del 2012, dopo ventitré anni di assenza,  l’autore congolese ha l’occasione di rimettere davvero piede a Pointe-Noire, invitato come scrittore pluripremiato e famoso nel mondo. Il ritorno, insieme alla compagna, è l’occasione per mettere a confronto i ricordi, inevitabilmente bugiardi, con la realtà, per dire addio agli eroi della propria infanzia, alle persone care che non ha più visto dal giorno della sua partenza. Prima di tutto alla donna che l’ha spinto a lasciare l’Africa alla volta dell’Europa, sua madre, Pauline Kengué, morta nel 1995, al cui funerale Alain non ha partecipato. Poi al papà adottivo, Roger, scomparso pochi anni dopo la moglie.

trois-cents

Una immagine del quartiere Trois-Cents a Pointe-Noire

In questo viaggio verso le proprie origini, Mabanckou – non più bambino affascinato dalla pittoresca varietà di quello che lo circonda, ma uomo di successo con «un punto di vista adulto» sul mondo – attraversa stati d’animo diversi, contraddittori. Prova un po’ di delusione nel rincontrare la sua famiglia allargata, ma è commosso dai tanti nipoti che si affollano intorno a lui. Ad alcuni parenti dedica ritratti sferzanti, o velati di tristezza, pur cercando di non giudicare le loro vite: il fratellastro Yaya Gaston, che aveva dipinto come un eroe in Domani avrò vent’anni, è l’ombra di sé stesso, invecchiato e vittima dell’alcol; la sorellastra Georgette, che sembra rifiutare il passare degli anni, si tinge i capelli, si sbianca la pelle, e gli chiede un milione di Cfa; il vecchio zio Matété, che è uno dei pochi che non va a trovarlo per spillare soldi al parente «americano», ma per ricordargli il legame con la terra dei suoi antenati (in passato lo zio l’aveva portato a caccia nella foresta, e vicino a un ruscello avevano visto due cervi che si abbeveravano: di notte il ragazzo li aveva rivisti in sogno, gli animali parlavano la sua lingua, e un cerbiatto – il suo doppio animale – aveva la testa come la sua…). Alain, inoltre, non può fare a meno di paragonare la sua vita a Parigi e in California con quella dei fratelli congolesi, né di registrare i tanti drammi che affliggono il paese natale: i quartieri poveri dove dilaga la prostituzione, gli ospedali che si trasformano spesso in ospizi, i conflitti fratricidi scatenati dal petrolio del Sud. Evita però di abbandonarsi a vittimismi e sensi di colpa, tenendo sempre a mente i piaceri della vita che si concedeva da bambino, forse gli stessi che animano i ragazzini di oggi.

Nel frattempo, ovunque vada, per le strade, all’Istituto francese (dove alloggia), al Chez Gaspard, tutti lo celebrano come il figliol prodigo: il bambino di una volta adesso è lo «scrittore che va in tv», «il francese», «l’americano» che vive a Hollywood, l’amico dei bianchi. Ma ripercorrere a ritroso i passi che ci hanno portati lontano – sembra suggerire Mabanckou – non sempre è sufficiente per tornare a casa. Ci vuole tempo per imparare ad affrontare i sorrisi della gente, i ricordi che affiorano, i propri fantasmi… E questo tempo Alain lo passa ad esplorare la sua città, diventata un’altra, un territorio sconosciuto: lo storico cinema Rex, dove da bambino guardava film western e di arti marziali, ora ospita la chiesa pentecostale de la Nouvelle Jérusalem (fucina di falsi miracoli e promesse impossibili), il liceo Karl Marx ora si chiama Victor Augagneur, dal nome di un governatore generale dell’Aef (Africa equatoriale francese). Lo sguardo dello scrittore indaga lo spazio con occhio quasi cinematografico. Non a caso, ognuno dei venticinque capitoli rimanda al titolo di un film (tutti visti al vecchio cinema Rex), mentre il racconto – osserva Michel Abescat («Télérama», 2/01/2013) – scivola dai colori più brillanti al seppia, dai toni leggeri a quelli più gravi. Vagando per la città, Alain racconta ciò che vede, descrive, trascrive, senza soffermarsi sulle emozioni contraddittorie che lo agitano; dona la parola ai personaggi che incontra: una puttana del quartiere Trois-Cents, un tipo bizzarro che gli spiega l’ultima guerra civile davanti a un bicchiere gentilmente offerto. Tutto questo senza cadere nel «miserabilismo», né saltare a conclusioni affrettate: spetterà al lettore indovinare un senso, raccogliere e ordinare i fili della narrazione.

victory-palace

Uno scorcio del Victory Palace di Pointe-Noire

La distanza che separa Mabanckou dal suo Congo – dice Emile Rabaté su «Libération» (10 gennaio 2013) – è di ventitré anni moltiplicati per migliaia di chilometri. Per coprire questa distanza, Alain riempie le pagine d’inchiostro, come volesse con esse costruire un ponte tra la realtà e il suo mondo immaginario, e sondare il divario tra il «territorio mitico» conservato nella propria memoria e le cose reali – fatti, luoghi e persone di Pointe-Noire –, soggette al passare del tempo, alle inevitabili trasformazioni della Storia. Così Mabanckou si aggira tra le vestigia della propria vita perduta, e si accorge stupito che la galleria di personaggi – a cui tante volte ha attinto nella fantasia – ha condotto e conduce una vita libera dalle catene alle quali lui li voleva inchiodati, una vita diversa e imprevedibile.

Come ha scritto Marine de Tilly su «Le Point» (10 gennaio 2013), in questo libro Mabanckou «si fa archeologo della propria infanzia», apre il proprio personale vaso di Pandora e permette al lettore di sbirciarci dentro, va a rivisitare i colori e gli odori della propria giovinezza, riabbraccia le persone vive e morte che hanno contato qualcosa, ringrazia alla terra che li ha ospitati – lasciando il lettore sorpreso da tanta sincerità, dallo slancio con cui rivela le proprie intime scoperte.

Una volta ripartito, Alain confesserà – o, semplicemente, si accorgerà – di non essere andato a rendere omaggio alla tomba della madre, al cimitero di Mont-Kamba. Ma forse è meglio così – dice ancora de Tilly –, forse è meglio questo dialogo intessuto di parole non dette – il dialogo tra Alain, figlio unico emigrato (diventato una star in Europa e in America come scrittore della diaspora africana), e la mamma scomparsa, Pauline Kengué, «umile contadina di Louboulou».

Alla fine del viaggio una cosa è certa: il paese in cui Alain è cresciuto non è più lo stesso – ma l’autore gli rimane fedele, come rimane fedele alla frase che gli disse sua madre in quel lontano 1989, l’ultima volta che la vide: «L’eau chaude n’oublie jamais qu’elle a été froide» (l’acqua calda non si dimentica di essere stata fredda).

Il libro è corredato dalle splendide fotografie di Caroline Blache.