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L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto di A. Igoni Barrett. Nove incipit per nove racconti

Un racconto può essere tante cose, una fiaba d’amore, un’indagine poliziesca, un viaggio d’iniziazione; può parlare di piloti d’idrovolante, di scaltri truffatori, di una bambina cresciuta in un negozio di mobili usati. In poche pagine, può rievocare qualcosa di più grande: un’impressione, una conversazione, una giornata, una vita. Abbiamo sempre avuto bisogno di ascoltare delle storie. Questo è lo spazio in cui continuare a farlo.

Pubblichiamo l’incipit dei nove racconti che compongono L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto di A. Igoni Barrett, tradotto da Michele Martino.
L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto è disponibile in libreria e sul nostro sito. Buona lettura da 66thand2nd!

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1

La cosa peggiore di tutte
Per la quarta volta in quattro anni, Ma Bille era costretta a ricoverarsi per un intervento agli occhi. Questa volta dovevano rimuoverle le cataratte. Non aveva paura: a sessantotto anni era ormai entrata e uscita dalla sala operatoria così spesso che il puzzo di antisettico delle pareti ospedaliere le era familiare quanto l’odore della cacca di bebè. Ciò che la angustiava, che l’aveva fatta svegliare quella mattina con il cuore che le martellava nelle orecchie, era il sospetto di essere rimasta sola in un mondo che aveva già visto passare i migliori anni della sua vita.

2
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Venditore di sogni
Quella mattina, come tutte le altre mattine in cui aveva saltato scuola, il quindicenne Samu’ila spinse i battenti della porta a vetri ed entrò nel fresco del cyber café. Era una stanza lunga, un deposito riconvertito, e non c’era un filo d’aria se non quella che passava per la porta d’ingresso, che era sempre chiusa. In alto, ai due lati della stanza, un paio di condizionatori antiquati ansimavano e sobbalzavano per il flusso della corrente elettrica, sbuffando folate di aria ghiacciata.

3
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La forma di un cerchio perfetto
Dimié Abrakasa aveva quattordici anni. Aveva le orecchie piccole, il collo lungo e le dita mobili e sensibili di un ladruncolo. La nonna diceva che la sua pelle somigliava al legno corallo lucido. La madre odiava i suoi occhi.

4
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L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto
Quando l’orologio a parete dietro il bancone dei reclami segnò le 7.00, Eghobamien Adrawus tirò giù le gambe dal divano e sciolse i lacci dei suoi stivali sotto misura. Sospirò quando lo stivale sinistro cadde a terra. Stiracchiò le braccia, torse il busto e si bloccò, stringendo i denti, ma non abbastanza in fretta da scacciare l’odore di zoo che fino a poco prima fluttuava ai margini della sua coscienza e che adesso gli si era depositato nel palato. Emise un verso strozzato, come una pompa di suzione rotta. Animali, pensò, sputando un grumo informe di muco.

5
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Il mio problema dell’alito cattivo
Stamattina sono andato dal dentista per il mio problema dell’alito cattivo, e la dottoressa, dopo aver detto «fai ah!», ha appuntato qualcosa sul suo bloc notes della Yem Kem e mi ha informato che ho l’alitosi. Mi sono quasi pisciato nei boxer quando ho sentito quel parolone. Ero sicuro che si trattasse di una grave forma di cancro. Ma quando mi ha detto di lavarmi i denti due volte al giorno, di mangiare frutta tre volte al giorno e di bere un sacco d’acqua ogni giorno, ho cominciato a sospettare che l’inglese fosse un male peggiore del guaio che mi stava rovinando la vita. Perciò le ho chiesto se mi avrebbe ucciso. La dottoressa mi ha guardato come se non fossi nemmeno un adulto.

6
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Trophy
La prima volta che l’ho incontrato, gli ho stretto la mano e ho fatto un cenno d’assenso col capo mentre lui mi diceva come si chiamava, che lavoro faceva e quanto fosse felice di conoscermi. Ero appena arrivato in città. Il viaggio era stato lungo: mi sentivo uno straccio, ero un po’ nervoso e non vedevo l’ora di andare a dormire. Sono sceso dalla macchina che avevo preso a noleggio e subito un gruppo di uomini che mi stava aspettando davanti alla hall dell’albergo si è precipitato verso di me, chiamandomi per nome. In un attimo mi hanno circondato, tra grandi sorrisi, pacche sulle spalle e una raffica di parole, un turbinio di facce e nomi mai visti né sentiti prima. Lui era uno di loro, un uomo di altezza media – forse un metro e settantasei, come me – con la pelle color legno fradicio. Sulle guance aveva quattro cicatrici da artigli di tigre, lunghe e profonde. Mi sono chiesto se fossero i segni tribali a donargli quel sorriso schivo, e se l’avrei incontrato di nuovo. Quando mi ha detto il suo nome, ho annuito mostrando interesse, ma non l’ho ripetuto né tantomeno memorizzato, e mi sono scordato tutto: lui, il suo nome, la sua faccia.

7
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La ragazzina con i seni in boccio
e la risata di gomma da masticare
La amava da quando aveva nove anni e i seni come due mandarini. Lei era ancora nella fase irruenta – correva per casa con un paio di mutandine, strillava e rideva. Lui era suo cugino, un fratello maggiore, aveva quindici anni più di lei. Nessuno ci vedeva niente di male nel fatto che lui la prendesse sotto le braccia e la facesse girare in tondo come un festone dell’albero di maggio, mentre lei urlava e scalciava, e poi se la stringesse al petto sorridendo tutto il tempo come una maschera Nok per nascondere lo sconforto che il suo odore di latte e zucchero, il suo calore di cucciola, gli risvegliava nello stomaco. Quando lei aveva undici anni e il cugino era in visita dallo zio, che giaceva malato nel letto, lui la fece sedere sulle sue ginocchia e le accarezzò le gambe finché la cuginetta non gli allacciò le braccia al collo soffocandolo in una nuvola di singhiozzi alla menta e di sudore al talco. Quella notte, mentre lui con una mano si sfiorava, il padre della ragazzina moriva.

8
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Godspeed e Perpetua
All’età di sette mesi, tre settimane e sei giorni, la figlia degli Anabraba contrasse un’infezione che prima di notte le aveva già gonfiato la testa come un cocomero. La madre, incapace di reggere al pensiero di dover gettare un pezzo della sua anima nella pattumiera della carne, abbandonò la bimba dilaniata dalla febbre nelle braccia del padre e si rifugiò in una chiesa vicina, la Cittadella del fuoco e dei miracoli. Suo marito era un funzionario pubblico di trentacinque anni, padre per la prima volta. Non era equipaggiato, in base alla formazione e all’esperienza, per un compito simile.

9
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Una storia di tira e molla a Nairobi
Chiamiamola Leo. Bianca, snella, sudafricana, i capelli di un castano ramato. Chioccia per gli orfani, ma lei ancora senza figli, e giù a rimpiangere ogni mese le occasioni perdute. Feroce come gli occhi del drago cinese sputafuoco striato di verde e di rosso che si era fatto tatuare sulla schiena, proprio sotto la spalla sinistra. Ribelle, eclettica Leo, in pantaloni e giubbotto di jeans, Leo che cammina spavalda, dinoccolata sulle sue sudice scarpe da tennis, e si fa due tiri d’erba con quell’aria da soldato Jane che sa come tenere a bada i teppisti del quartiere, i ragazzi.
«Se sei una donna bianca in Africa, il pene non è un problema. L’invidia del culo sì».
Ecco a voi Leo.

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