La fine

L’incipit della Fine, romanzo d’esordio di Salvatore Scibona finalista al National Book Award, è dedicato al fornaio di Elephant Park: Rocco LaGrassa, che da anni  vive da solo tra la casa e la panetteria, sprofondato in un’esistenza ripetitiva e religiosamente disciplinata, isolato dal resto della famiglia. La moglie Luigina, «Loveypants», lo ha abbandonato molti anni prima per inseguire un lavoro e una vita migliore sulla East Coast. Dopo diciassette anni, però, Rocco non si è ancora arreso all’evidenza dell’abbandono.

È il 15 agosto 1953, la mattina della festa dell’Assunta. Quel giorno Rocco apprende della morte del figlio Mimmo in Corea – un altro trauma che il fornaio non vuole e non riesce ad accettare. Ma il rifiuto della morte di Mimmo finisce per scombinare la sua consolidata e solitaria routine, e Rocco si convince che è arrivato il momento – dopo quasi tre decenni («10.685 giorni» per l’esattezza) – di chiudere la panetteria e andare a trovare la moglie e i figli superstiti in New Jersey. Il viaggio che da Cleveland lo dovrebbe portare verso est segue però un percorso tortuoso e imprevedibile (come è stata, d’altra parte, la sua vita), e Rocco si ritrova ad ammirare le cascate del Niagara, e poi – passeggiando sopra il ponte sospeso – a raggiungere il confine con il Canada. Tornato sul suolo americano, ancora assorto nei suoi pensieri, Rocco si mette a parlare con uno scontroso gelataio ambulante, e infine entra nel negozio di un barbiere, che prova a convincere il forestiero che quello non è il New Jersey, e nemmeno la Pennsylvania.

Rocco LaGrassa, nello stato di confusione in cui si dibatte, è solo il primo di una serie di personaggi dalla storia travagliata e segnata dai lutti, incapaci di distinguere con esattezza la realtà dalle proprie fantasie, o dai propri ricordi. Prima di mettersi in viaggio, Rocco aveva accettato un invito a pranzo da parte di una vicina del quartiere, Mrs Costanza Marini, una vedova novantatreenne che nasconde, dietro l’aspetto irreprensibile, una professione illecita e un difficile passato.

È attraverso questo nuovo personaggio che la storia, a poco a poco, comincia ad avvitarsi e a sprofondare indietro nel tempo. Nella mattina di festa dell’agosto del ’53 – il termine ultimo nella cronologia del romanzo – si apre come una fessura temporale, e attraverso quello spiraglio il passato si riversa nel «presente» (della storia), illuminandolo, ampliando la prospettiva del racconto, ma anche confondendo le carte e spiazzando la coscienza già fragile e confusa dei protagonisti. Mrs Marini ha perso, molti anni prima, il marito, il bolognese Nico Marini, con cui però intrattiene ancora dei dialoghi molto intimi, a metà tra il sogno e la veglia. Donna Costanza riflette sul proprio agire, costantemente, e Nico interviene dal silenzio – «dal luogo del suo disfacimento» – per contraddirla e suggerirle condotte alternative. Il marito scomparso (o qualcuno che indossa la «maschera» del giovane Nico) è insomma una figura ancora presente nella vita dell’anziana signora. Nico e Costanza si erano incontrati da ragazzi, nel Lazio, dove lei viveva con i genitori e lui era di stanza con le truppe del re. Si erano conosciuti quasi per sbaglio, perché Nico aveva perso una gara di corsa contro il fratello, che era stato portato via a spalla dagli altri soldati, e Costanza aveva regalato a Nico (lo sconfitto) il mazzo di carte che spettava al vincitore; poi Costanza aveva deciso di sposarlo, quel ragazzo, e per farlo aveva dovuto prendere un treno per Genova e imbarcarsi per l’America. Era il 1879 (una partenza sofferta, il cui ricordo ricorre più volte nel libro, fino alle pagine conclusive). Nico è morto nel 1915. Da allora la vedova veste a lutto.

Molto tempo dopo, nel 1953, con Mrs Marini vive il quindicenne Ciccio Mazzone. Il ragazzo dà una mano alla donna in cambio di vitto e alloggio. Ciccio è un adolescente ribelle e vuole starsene lontano dal padre, Enzo; e dopo la morte di Enzo, vuole stare alla larga dalla madre, Lina, tornata a casa da poco (sette anni dopo aver abbandonato il marito e il figlio senza un motivo apparente). Mrs Marini si prende cura di Ciccio forse perché, tempo prima, ha ideato un piano che coinvolgeva anche la madre del ragazzo. Nel 1928, tredici anni dopo la morte del marito, la sessantottenne Mrs Marini aveva cominciato a interessarsi alle sorti di Lina, il cui nome completo è Carmelina Montanero, che allora faceva la sarta a cottimo ed era appena una ragazzina. Ma Mrs Marini aveva messo gli occhi su Lina più per interesse personale che per altruismo. Donna Costanza era amica dei genitori di Lina, Patrizia e Umberto Montanero, e considerava Lina «una sua creazione». L’aveva fatta crescere. Voleva sottrarla al suo magro avvenire da sarta, anche se poi non era riuscita a evitare che la ragazza si sposasse, perché il padre Umberto si era messo in mezzo e aveva promesso Lina a un muratore, Vincenzo Mazzone detto Enzo, da poco arrivato in America dalla Campania. Per Umberto era solo un modo di liberarsi della figlia, ricavare del denaro e ritirarsi in campagna, nella sua vigna. E così Lina ed Enzo si erano sposati, e Lina aveva continuato a fare la sarta; mentre Donna Costanza, a causa del rifiuto ostinato di Enzo, aveva dovuto rinunciare al suo piano, che poi era quello di trasformare Lina nella sua apprendista e nella sua erede naturale – Mrs Marini è dedita infatti a una professione segreta, sviluppata durante la vedovanza: esegue aborti clandestini nello scantinato di casa, con una tale perizia che anche i dottori ufficiali la trattano con un certo rispetto.

Nel corso delle pagine e dei capitoli, Scibona si cala ora nelle vesti di uno, ora di un altro dei suoi personaggi, adottandone il punto di vista, descrivendoli con cura minuziosa, e annodando uno dopo l’altro i fili che uniscono le loro storie diverse: gli studi di Ciccio alla scuola dei gesuiti (consigliata da Mrs Marini), le meditazioni erudite sulla filosofia di Tommaso d’Aquino, la visita dall’Italia del nonno Francesco Mazzone, le attività illegali di Mrs Marini, la giovinezza e il matrimonio di Lina (che all’inizio non riesce però ad avere un figlio da Enzo), la fattoria dove vanno a vivere Patrizia e Umberto, e poi la decisione di Umberto di tornare in Sicilia, contro la volontà di Patrizia che sceglie di restare. Finché nelle loro vite si insinua un altro personaggio, senza nome – forse l’unico a non avere origini italiane. È un scapolo di cinquantaquattro anni che vive con la sorella nubile (un anno più vecchia di lui) e manda avanti una gioielleria in centro, avviata dal nonno alla fine dell’Ottocento. Questo enigmatico personaggio è il protagonista dei capitoli intitolati «The Forest Runner» (titolo che viene da un romanzo per ragazzi che il gioielliere ha letto più volte, Gli uomini che corrono nella foresta, di A. Altsheler, ambientato nella valle del fiume Ohio). Il gioielliere ha una curiosa passione per le vecchie lettere dei soldati Confederati (le cerca, le studia, le compra e le conserva), un tratto che ricorda l’ossessione di Jack Burden per il dossier su Cass Mastern in Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren. Tra queste lettere, ricopiate a mano, ce ne sono anche otto che appartenevano al nonno materno, nato in Kentucky, ex soldato sudista nella battaglia di Chickamauga del 1863. Ma il gioielliere ha anche un’altra ossessione: un segreto più inquietante di quello di Mrs Marini. Un giorno, nel 1936, l’uomo ha commesso un crimine disgustoso. Un raptus di violenza l’ha preso all’improvviso. Un’inspiegabile succedersi di eventi: prima, in negozio, ha sentito dalle labbra di una giovane cliente l’accento del Kentucky, che gli ha ricordato quello di sua madre; più tardi, su un ponte, ha visto passare una donna, china come un mulo sotto il peso di un sacco di iuta. La donna è Lina, che sta tornando a casa con la sporta piena di stoffe da cucire. Il gioielliere la segue fino a casa, probabilmente la violenta (Scibona non si sofferma sul delitto), e la colpisce fin quasi a ucciderla. Ma Lina sopravvive. Enzo la trova, ferita (pensa che sia caduta e abbia battuto la testa e la veste si sia sollevata sopra il sedere), e le lava via il sangue. Passano quasi dieci anni e, nel 1946, senza dare altre spiegazioni, Lina sparisce – e non si farà viva per sette anni, fino al giorno in cui Enzo muore in un incidente d’auto, e Ciccio rimane da solo, con Mrs Marini. (Non è dato sapere perché Lina sia scappata, ma è lecito supporre che il suo violentatore – il gioielliere – sia il vero padre di Ciccio, nato meno di un anno dopo l’orribile violenza. Così come deve esserci un legame tra la scelta di Lina – di non abortire, e poi di scappare – e l’attività di Mrs Marini, di cui Lina è informata e a cui ha partecipato in varie occasioni).

Tutti questi personaggi – a parte quelli che non ci sono più, come Nico ed Enzo, o che hanno lasciato Cleveland da tempo, come Umberto e Loveypants – si ritrovano a Elephant Park per la festa dell’Assunta, il 15 agosto del 1953. È proprio quel giorno, con quella celebrazione pittoresca così sentita dalla comunità italoamericana, a fornire il punto d’incontro tangibile, concreto, di tutte le storie raccontate nel romanzo. E sembra essere anche il punto di arrivo – provvisorio (o illusorio?) – della parabola esistenziale dei personaggi, (quasi) tutti figli o nipoti di immigrati italiani, tutti impegnati a dare un senso alle loro vite, e a quel viaggio che li ha trasportati dall’altra parte del mondo. Tra la folla si aggira anche il gioielliere, ormai attempato. Frequenta quella festa ogni agosto, da cinque anni – forse perché il giorno della violenza (quindici anni prima) si era seduto al tavolino di un bar, con le unghie ancora sporche di sangue, e aveva tenuto in mano un «giornale straniero» (italiano?), di cui non capiva le scritte, ma su cui c’era la foto di una specie di parata, con una statua portata in processione. E adesso il gioielliere gira tra la gente in festa, chiedendosi se in mezzo a loro possa esserci anche quella donna – se è sopravvissuta –, e chiedendosi se la donna, qualora lo vedesse, potrebbe riconoscerlo e accusarlo.

Per strada c’è anche un altro italoamericano, Gary, un immigrato di seconda generazione. Gary ormai è perfettamente integrato negli Stati Uniti – eppure sente il bisogno di portare il figlio ad assistere alla processione di Elephant Park, perché quel posto, quell’ambiente, quella gente, gli comunica ancora qualcosa, restituisce un senso alla sua vita. È come un ponte invisibile tra il presente, tra sé stesso, e il passato, che vede riflesso nel volto rugoso e nello sguardo distante di Rocco, il vecchio fornaio, che osserva la processione dal tetto di un palazzo in mezzo ai ragazzini del quartiere. Ma quel sentimento di identità culturale, quel senso di appartenenza condiviso dagli immigrati italiani (che pure hanno dovuto subire, nel nuovo paese, discriminazioni e rifiuti), sembra cementarsi solo nell’intolleranza e nell’odio riflesso, quando tra la folla si diffonde la voce che un gruppo di gente di colore si è unita alla processione e si è messa a ballare, mentre alcuni bambini neri hanno fatto danni in una chiesa.

 

 

L’emigrazione e la comunità italoamericana

La vicenda raccontata da Scibona è ambientata nel passato, e copre un arco temporale di circa sette decenni. L’inizio si colloca negli anni Cinquanta: da lì si torna indietro, agli anni Venti e Trenta, e poi ancora indietro, fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, per poi ritrovarsi di nuovo nel tempo e nel luogo dove si era partiti. I personaggi del romanzo sono tutti, o quasi, immigrati di origine italiana – di prima e seconda (o terza) generazione –, molti sono nati o cresciuti nel quartiere di Elephant Park, in una immaginaria cittadina dell’Ohio. Ma il libro non è solo il ritratto efficace e colorito di una comunità etnica, con le sue usanze e il suo folklore, né il reseconto delle tensioni sociali e razziali generate nel crogiolo culturale americano. La comunità italiana d’America fornisce, per così dire, un sostrato descrittivo, uno sfondo realistico, che l’autore riesce a dipingere con grande calore e dovizia di particolari, perché ci è cresciuto in mezzo. Ma Scibona sceglie anche di discostarsi nettamente dalle rappresentazioni stereotipate degli italoamericani, che ruotano intorno alle storie di mafia e criminalità (genere che ha comunque «una sua dignità artistica»). Anche la violenza, pur presente in molti passaggi del libro, è tenuta accuratamente ai margini della scrittura e del racconto, sia che si tratti dello stupro che cambia il destino dei personaggi, dell’incidente stradale in cui muore Enzo, degli aborti praticati da Mrs Marini, delle tensioni razziali che stanno per esplodere alla fine della processione – o perfino degli episodi ambientati durante la guerra. I personaggi della Fine non sono affiliati di Cosa nostra, sono persone comuni, lavoratori, magari analfabeti o comunque in difficoltà con la lingua che si parla in America. «Io non ho mai conosciuto un mafioso in vita mia,» ha dichiarato Scibona ad Alessandra Farkas del «Corriere della Sera» «infatti nel mio libro non c’è n’è neppure uno perché preferisco parlare di gente vera». Gli italoamericani di Scibona non sono colti all’inizio del loro viaggio, carichi di speranze (o di paure) per il futuro;  sono più spesso ritratti alla fine della loro vita, nell’atto di guardarsi indietro e ricordare il passato, che sottilmente si mescola e si confonde con il presente. Tutte scelte che conferiscono al romanzo un ritmo particolare, una profondità insolita, una dimensione quasi metafisica. «Volevo restituire agli analfabeti e a chi è arrivato da lontano la possibilità di esprimersi,» ha dichiarato ancora Scibona a Lara Crinò del «Venerdì» «di rado si cerca un linguaggio per raccontare il loro mondo».


«Ciò che è realmente qui e ciò che non lo è»

L’emigrazione (dall’Italia, ma anche interna agli Stati Uniti) può essere considerata la metafora di una più ampia condizione di vita, di un’«ambiguità esistenziale» che definisce tutti i personaggi: i  protagonisti della Fine sono degli «spostati» che vivono in qualche punto imprecisato tra ciò «che si sono lasciati alle spalle – o che i loro genitori si sono lasciati alle spalle – e la cittadina dell’Ohio dove si sono stabiliti» («Kirkus»). L’«assenza e la presenza» ha scritto Stuart Evers sul «Telegraph» (30/10/10), ossia la dialettica tra «ciò che è realmente qui e ciò che non lo è» sembra essere il «tema che percorre il romanzo». Rocco, per esempio, «si considera ancora sposato, e ancora padre, benché in realtà non sia più nessuna delle due cose». Mrs Marini dialoga con «i demoni e gli amanti del suo passato come se fossero reali». Il «gioielliere si chiede se qualcuno si ricorderà del suo nome». E Ciccio affronta con il maestro della scuola di gesuiti profonde questioni filosofiche e teologiche. Dal cuore e dalla testa di ogni personaggio affiorano  domande sulla propria identità, su cui grava la consapevolezza di una fine imminente – la propria morte, il ricordo delle cose e delle persone perdute, lo smarrimento delle proprie radici culturali, il distacco tra le generazioni, la solitudine della vita nel Nuovo Mondo. È proprio questo «senso di dissolvimento», sia dell’identità individuale sia di un’intera comunità, a permeare tutte le pagine del libro, come ha  messo in luce Fran Bigman («Times – Literary Supplement», ottobre 2010). E questo senso di disfacimento dell’identità è visibile soprattutto nei rapporti difficili, o più spesso inesistenti, tra i genitori (venuti dall’Italia) e i figli (nati in America); se The Kid (il racconto di Scibona uscito sul «New Yorker» e in Italia su «D» di «Repubblica») è la storia di un bambino abbandonato dal padre, La fine – ha scritto la Bigman – «è una storia di adulti senza bambini»: Rocco, il fornaio abbandonato da moglie e figli, uno dei quali è morto in Corea; Mrs Marini, una novantenne che pratica aborti e che ha perso il proprio bambino quando era piccolo; la sua protetta, Lina, che si allontana a sua volta dal figlio, Ciccio, per sfuggire a un’orribile e inconfessabile verità; il marito di Lina, Enzo Mazzone, rimasto solo a crescere un figlio non suo.

Non è un caso, infatti, che anche l’immagine più spettacolare del libro, quella della Madonna portata in processione – che richiama alla memoria la celebre sequenza del Padrino Parte parte II di F.F. Coppola, come di tanti altri film sulle comunità italiane d’oltreoceano –, non si lasci usare come elemento scenografico o folkloristico, ma si colori di un significato diverso (intimo, interiore) per ognuno dei protagonisti, e abbia la capacità di penetrare nell’anima dei personaggi innescando riflessioni ancora più profonde, capaci quasi di procurare le vertigini: «L’Europa stava accadendo, proprio lì,» scrive Scibona verso la fine del libro, descrivendo la processione «e non c’entrava proprio niente. Questo non era il continente del gruppo, del socialismo, di un milione di città sovraffollate. Questa era la terra del singolo, dell’impresa privata, di contee, di pascoli vasti e vuoti, del Gesù protestante che usa solo il nome di battesimo e salvava le persone una per una in base al principio del Tu hai fede nel segreto del tuo cuore, o no? Questa folla non c’entrava in questo posto». Ancora una volta, un’esperienza concreta, sociale, si tramuta nel suo contrario, porta a una dissociazione interiore, a una fuga nei ricordi e nel passato, a un senso di solitudine e non appartenenza. «Scappare dalla folla» dice Scibona, vestendo i panni di Rocco «era come recidere e uccidere una parte di sé stessi».


La struttura e il linguaggio. Influenze letterarie

Oltre ai primi due livelli di lettura – l’ambientazione nella comunità degli immigrati italiani, il tema del «dissolvimento dell’identità» o dell’«assenza» –, il romanzo di Scibona ne ha almeno un terzo, costituito dall’affascinante struttura narrativa e dalla ricchezza del linguaggio, che hanno alimentato numerosi paragoni con alcuni mostri sacri del passato.

La fine, come si è visto, non ha una trama lineare, facile da identificare e da riassumere. È un racconto polifonico e labirintico che si apre e si chiude lo stesso giorno – il 15 agosto del 1953. Proprio come accade durante la festa dell’Assunta, nel turbinio di gente che si incrocia per le strade di Elephant Park, tutta l’opera di Scibona pone l’enfasi non tanto sulle singole storie, sulle diverse traiettorie narrative, quanto sui «punti di intersezione» tra i personaggi («LA Times», 23/11/08). Da questo incrocio di destini deriva la struttura elusiva, circolare (o ellittica) del romanzo, che trasporta il lettore avanti e indietro nel tempo, e talvolta spinge i ricordi dei personaggi ad attraversare l’oceano e tornare in Italia, da dove molti sono partiti – o da dove sono partiti i loro nonni e bisnonni.

La frammentazione della storia, l’omissione di particolari decisivi della trama e dei personaggi e, al contrario, l’approfondita descrizione di altri aspetti apparentemente meno importanti, insomma tutte le strategie scelte da Scibona con cura deliberata rivelano, pagina dopo pagina, un impianto narrativo architettata nei minimi dettagli e una precisa cronologia, carica di corrispondenze, di rimandi, di significati nascosti, di allusioni implicite. Solo per citare alcuni dei possibili spunti che una (ri)lettura approfondita può far emergere, si pensi ad alcune analogie numeriche: Rocco è alto un metro e cinquantaquattro, mentre cinquantaquattro anni ha il gioielliere nel 1936 (quando commette la violenza su Lina); sessantotto anni ha Mrs Marini nel 1928, quando sceglie Lina come sua «erede», e  la stessa età ha il gioielliere, nel 1953, quando si aggira per la festa cercando tra la folla il volto di quell’italiana che ha stuprato e quasi ucciso quindici anni prima. Nove anni passano tra la nascita di Ciccio e la fuga di Lina; e nove anni copre il secondo capitolo del libro. Su questa architettura narrativa rigorosa e studiata, Scibona costruisce i suoi periodi lunghi e cesellati, passando da una forma di monologo interiore a una narrazione onnisciente, a brani descrittivi, a scambi di battute vividi e serrati. Nella sua prosa si alternano e si mescolano frasi elaborate e formali, neologismi, frammenti di dialoghi in italiano o in un inglese sgrammaticato, domande esistenziali (magari in latino), echi di voci e commenti del vicinato, ritornelli pubblicitari e proverbi (F. Bigman, «Times»): particolare attenzione dedica l’autore «al modo in cui gli immigrati usano il linguaggio, che conferisce alle conversazioni una qualità teatrale» – un’attenzione linguistica che non può che richiamare alla mente, tra gli altri, anche lo stile di Verga («la baia di Aci Trezza» è citata, non a caso, nel primo capitolo della Fine).

Un «tour de force letterario» ha scritto il «Publisher Weekly» a proposito dell’opera di Scibona, aggiungendo che si tratta «in parte [di] un romanzo, e in parte [di] un poema epico in prosa che abbraccia la prima metà del Ventesimo secolo». Di «lirico realismo» ha parlato anche il «New Yorker», che ha consacrato l’autore tra i migliori autori dei prossimi vent’anni. ZZ Packer ha detto che Scibona, più di ogni altro scrittore contemporaneo, è il vero «erede di Saul Bellow, Graham Greene e Virginia Woolf». Ann Trubek del «Plain Dealer» ha aggiunto i nomi di William Faulkner, Gertrude Stein e James Joyce. Per «Kirkus» la narrativa di Scibona «è intrisa di quei frammenti casuali – rivelatori nella loro incomprensibilità – che Joyce chiama “epifanie”». Alla letteratura di Faulkner, Scibona può essere accostato per la narrazione episodica dalla cronologia disordinata, oltre che per lo sforzo di caricare di significato i momenti banali nella vita dei personaggi; a Graham Green, invece – secondo Olivia Laing dell’«Observer» (12/12/10) – Scibona assomiglia per la maestria con cui combina «le problematiche esistenziali con un plot febbrile, stringente, e un uso preciso, quasi crudele, delle coincidenze».

La disarticolazione dell’intreccio operata da Scibona, e il ricorrere di alcuni momenti chiave della storia – per esempio il pranzo di Rocco, Ciccio e Mrs Marini, la processione e lo stupro –, possono ricordare anche la tecnica narrativa di David Lynch – anche per la scelta di nascondere, o quantomeno non esplicitare, l’identità della vittima dello stupro, lasciando al lettore il compito di ricostruire il puzzle (il nome di Elephant Park, peraltro, sembra alludere a uno dei titoli più famosi della filmografia di Lynch); o anche Jim Jarmusch, anche lui dell’Ohio (Akron), regista noto per la costruzione non lineare delle trame, il ritmo rarefatto, e l’interesse per la mescolanza culturale e l’alienazione nella società americana.

L’accostamento a tutti questi nomi celebri non ha spaventato Scibona, che ha sempre dichiarato in modo diretto i propri riferimenti letterari, indicando proprio autori come William Faulkner e Virginia Woolf. In cima alla lista degli autori che l’hanno maggiormente influenzato ci sono, però – è emerso da diverse interviste – due giganti della letteratura americana: uno è Don DeLillo («la sua lingua, straordinariamente lavorata, non è l’inglese,» ha detto Scibona a A. Farkas «ma l’americano e, grazie a quest’uomo, severo come un monaco, ho imparato il rapporto tra l’anima e il modo in cui ti esprimi»). Un altro è Saul Bellow, che nel 1998 ha pubblicato il primo racconto di Scibona sulla rivista «News from the Republic of Letters».

(Michele Martino, marzo 2011)