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Il vento della luna di Antonio Muñoz Molina. Un estratto

Il vento della luna di Antonio Muñoz Molina è «l’emozione del ricordo, sostenuta da una pressione stilistica in crescendo, che diventa memoria non solo personale, ma di tutta una generazione» come ha scritto Bruno Arpaia.

Nella piccola città di Mágina un tredicenne assiste palpitante al viaggio dell’Apollo 11. Anche per lui è epoca di cambiamenti: l’infanzia è finita e l’ingresso nella pubertà è segnato dall’affacciarsi di pulsioni fino a quel momento sconosciute e da una crescente insofferenza per l’educazione cattolica, la vita rurale e il ritmo lento delle stagioni che si ripetono, anno dopo anno, sempre uguali.

Pubblichiamo un estratto del libro, tradotto da Maria Nicola. Buona lettura!

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Attendi con impazienza e timore un’esplosione simile a un cataclisma che avverrà appena il conto alla rovescia raggiungerà lo zero, ma non accade niente. Attendi disteso sulla schiena, rigido, le ginocchia piegate ad angolo retto, lo sguardo fisso, rivolto verso l’alto, in direzione del cielo se potessi vederlo, dietro la curva trasparente del casco che quando è stato agganciato al colletto rigido della tuta esterna ti ha immerso in un silenzio definitivo da fondale marino. Di colpo le bocche di coloro che ti stavano intorno si muovevano senza emettere suono, ed era come trovarsi già molto lontano benché il viaggio non fosse ancora cominciato. Le mani posate sulle gambe, i piedi uniti nei grossi stivali bianchi col bordo giallo e la suola spessa trattenuti da ceppi di titanio, gli occhi spalancati. Non senti alcun rumore, nemmeno il ronzio del sangue dentro le orecchie, nemmeno i battiti del tuo cuore, registrati e trasmessi da sensori applicati al torace, profondi e regolari, risonanti come colpi di tamburo, certo con una cadenza meno esatta del pulsare dei cronometri. Il numero dei tuoi battiti al minuto rimarrà registrato al pari di quello dei tuoi compagni, ciascuno immobile e teso quanto te, mentre i tre cuori battono a ritmo disuguale come tre tamburi non sincronizzati. Chiuderai gli occhi, in attesa. Le palpebre sono quasi l’unica parte del corpo che puoi muovere liberamente, e questo ti ricorda la fragile natura del tuo organismo, la nudità nascosta all’interno delle tre tute sovrapposte, fatte di nylon, di plastica, di cotone, trattate con sostanze ignifughe, ciascuna, in sé stessa, già un veicolo spaziale. Qualche anno fa ti sei trovato a galleggiare nel vuoto per più di un’ora, a duecento chilometri dalla Terra, legato alla navicella soltanto dal lungo cavo che ti consentiva di respirare: non ricordi paura né vertigine, solo una sensazione di perfetta quiete mentre ti muovevi senza peso, stendendo braccia e gambe nel nulla, colpito impercettibilmente dalle particelle del vento solare. Con gli occhi chiusi, immagino di essere quell’astronauta. Non vedo stelle, solo un’oscurità in cui nulla esiste, né il vicino o il lontano, né il sopra o il sotto, né il prima o il dopo. Vedo la curvatura immensa della Terra, che splende azzurra e bianca muovendosi lentamente, le spirali delle nubi, il confine d’ombra fra la notte e il giorno. Ma ora non voglio galleggiare nello spazio. Ora chiudo gli occhi e nutro la mia fantasia di dati minuziosi per poter essere anch’io a bordo dell’Apollo 11, nell’istante precisodel lancio. Controlli parzialmente il movimento delle palpebre, membrane sottili che scivolano sulla convessità umida degli occhi, e i muscoli che muovono i bulbi oculari, ma che per quanti sforzi tu faccia non ti consentono di vedere né a destra né a sinistra. Alla tua destra sono distesi gli altri due membri dell’equipaggio, rigidi come te dentro le tute e i caschi, in posizione identica alla tua, immobilizzati dalle stesse cinghie elastiche e dagli stessi ceppi di titanio, rinchiusi insieme a te nell’abitacolo conico ricco di ossigeno e zeppo di cavi, interruttori, collegamenti elettrici, una trappola esplosiva capace di trasformarsi in una palla di fuoco nell’eventualità non improbabile che scocchi la scintilla di un corto circuito. Già altri sono morti così, in uno spazio ristretto e soffocante come questo, in questa stessa posizione che ha già qualcosa di funerario. L’astronauta più vicino al portello aveva tentato di sbloccare la leva d’apertura e un attimo dopo tutto l’ossigeno era esploso in una sola fiammata. Lamiere incandescenti che si contorcono, fumo tossico di materiali isolanti e fibre sintetiche, plastica fusa che aderisce alla carne bruciata e vi si mescola. La capsula è posta sulla punta di un razzo venti metri più alto della statua della Libertà, carico di settemila tonnellate di idrogeno liquido altamente infiammabile, tanto che lastre di ghiaccio sintetico rivestono la superficie esterna per ab- bassarne la temperatura nel clima caldo umido delle paludi della Florida. Ma tu non provi nessuna sensazione di calore, malgrado la tuta, il casco, i tre corpi distesi l’uno accanto all’altro nel piccolo vano conico, ciascuno con la sua pulsazione segreta, con i suoi battiti di palpebre, con il suo sangue che circola a una velocità lievemente diversa. Una rete capillare di tubi sottilissimi garantisce un flusso costante di acqua fredda che circola all’interno della tuta, rinfrescandola. Un’aria dal lieve odore di plastica sfiora dolcemente la pelle, il volto, le dita all’interno dei guanti, i polpastrelli che tamburellano meccanicamente, con un’impazienza controllata, anch’essa registrata da sensori. Ma non è esattamente aria, è soprattutto ossigeno, al sessanta per cento, con un quaranta per cento di azoto. Quanto maggiore è la percentuale di ossigeno, tanto più cresce il pericolo d’incendio. L’aria sapeva di salsedine e forse di alghe e di melma anche all’altezza della passerella che conduceva al portello aperto, a centodieci metri da terra. Non vi era punto più alto in tutta la vastità delle pianure e degli acquitrini che si estendono fino all’orizzonte marino. L’odore salmastro dell’aria è svanito nell’attimo in cui il casco, applicato all’ampio colletto rigido della tuta spaziale, ha abolito ogni suono. Nel chiarore dell’alba biancheggiava in lontananza la linea di spuma che s’infrange silenziosa sulla riva dell’Atlantico. Viste da quella distanza, la pianura acquitrinosa e le spiagge rettilinee e deserte erano un paesaggio primitivo e ancora inesplorato, un territorio vergine di molto preesistente alle genealogie più antiche degli ominidi, propizio al manifestarsi della vita animale sulla Terra, quando le prime creature marine ancora dotate di branchie cominciavano a trascinarsi sul fango. Poco prima, nel buio, si scorgevano i falò sulle spiagge e le costellazioni di fari lungo le autostrade dove il traffico si era fermato, un grandioso pellegrinaggio umano che si avvicinava da molto lontano all’accecante luminosità della rampa di lancio, dove la luce bianca dei riflettori fa risaltare la verticalità del razzo circondato da nubi di vapore e l’impalcatura metallica rossa che lo sorregge, i cui ancoraggi si staccheranno uno dopo l’altro al momento della partenza, tra fiammate e nubi di fumo. La notte era profonda e lontana oltre le vetrate, e splendeva una luce chiara da clinica nei corridoi e nelle grandi sale di controllo dove nessuno sembrava aver chiuso occhio da molto tempo: volti pallidi, camicie bianche, cravatte strette e nere, colonne di cifre baluginanti sui piccoli schermi bombati dei calcolatori. Mercoledì 16 luglio 1969.

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