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Heartland/Casablanca

Un giocatore del Casablanca a colloquio con l'arbitro

A guardare il video di Rosario Raimondo pubblicato oggi sulla homepage di Repubblica.it sembra quasi di leggere le pagine di Heartland, il bellissimo romanzo di Anthony Cartwright pubblicato nella collana Attese. Anche quella del Casablanca, squadra di calcio formata esclusivamente da giocatori marocchini che milita nel campionato Uisp di Forlì, è infatti una storia di razzismo e discriminazione che esplode nel rettangolo di gioco, ma che ha radici ben più lontane e radicate nella società. E quanto siano radicate ce lo ha raccontato proprio Cartwright, utilizzando il calcio come straordinaria metafora per descrivere i conflitti a bassa intensità che attraversano l’Inghilterra post 11 settembre.

Leggi la storia del Casablanca ricostruita dal «Fatto Quotidiano».
Leggi qui e qui gli articoli del «Resto del Carlino».

La copertina di Heartland, di Anthony Cartwright

Di seguito un breve estratto da Heartland (pp 158-162): l’intervallo del match decisivo tra il Cinderheath Fc, la squadra locale gestita dal British National Party (partito xenofobo di estrema destra), e la compagine del Muslim Community Football Club. Una partita – titolano i tabloid – capace di «scatenare una guerra razziale» nel Black Country.

Subito dopo avere ammonito Glenn, Mark Stanley fischiò la fine del primo tempo. Troppo presto, solo mezza partita da giocare, la vittoria del campionato – per quanto di merda – che si allontanava. Rob si avviò verso gli altri raggruppati vicino alla bandierina. Stavano tutti intorno a Glenn, girava anche altra gente, facce nuove, amici di Glenn del Bnp, un tipo in giacca e cravatta si avvicinava al gruppo, era Bailey, il candidato al consiglio comunale. Rob si guardò in giro nella speranza di scampare all’incontro, si rese conto che zio Jim era stranamente sparito, mica scemo quello. Un poliziotto si avviava verso il capannello di giocatori. Glenn apriva un mastello di arance. Tutti bevevano. Zubair, anche lui camminando senza fretta verso i suoi compagni già raggruppati intorno alle macchine modificate, passò accanto a lui e gli strizzò l’occhio con aria molto soddisfatta. Gli porse la mano. Rob gliela toccò al volo e mentre si incrociavano gli diede una pacca sul culo.
Non è ancora finita, bello, disse.
Uno a zero, disse Zubair.
Oh, Rob, ti sbrighi?, gridò Glenn.
Eccomi, eccomi, disse mentre li raggiungeva.
Glenn aspettava che tutti finissero di bere e riprendessero fiato.
Quando un paio dei più giovani cominciarono a lamentarsi dei compagni, gli disse di stare zitti. L’elicottero ronzò lassù, quasi sopra di loro, tutti alzarono la testa e strizzarono gli occhi.
A chi stringi la mano?, disse una voce alle spalle di Rob. Uno di quei fanatici dell’ultim’ora – sulla trentina, in giacca nera e cappellino dell’Inghilterra, con una specie di occhio di vetro che gli dava uno strano sguardo fisso – gli stava addosso. La visiera del berretto quasi toccava la faccia di Rob. Non lo aveva mai visto.
Eh?, disse Rob, fingendo di non aver sentito.
A chi stringi la mano, ho detto.
A un mio amico dell’altra squadra.
Te lo diciamo noi a chi stringere la mano, e quando. Vedi di ricordartelo.
Ma vaffanculo.
Occhio, bellezza.
Ma chi sei? Pensa al tuo di occhio.
A quel punto Rob si girò, dritto in faccia a quell’altro. Sembrò colto un po’ di sorpresa, perché indietreggiò di un passo o due e girò la testa per guardare Rob con l’occhio buono.
Chi cazzo sei, eh? Ti conosco?
Varie voci si alzarono: Lascia stare, Rob, Tranquillo, Rob, Lascia stare, Kenny, non vale la pena. La polizia li guardava. Rob abbassò la voce. Lee gli mise una mano sulla spalla, Chris, grande e grosso, gli si era piazzato accanto. Da dove arrivi, bello? Ti conosco? Con che diritto mi dici cosa fare, eh, come comportarmi?
Altri in giacca e cappellino lo trascinarono via. Uno di loro, a Rob sembrava di averlo visto a qualche incontro con i genitori a scuola, gli parlava piano: Calma Kenny. Non qui, non ora, ricordi cosa ci siamo detti?
Bailey, con il completo stranamente immacolato, si era allontanato lungo la linea. In campana, capito?, gridò l’uomo a Rob, guardandolo con l’occhio buono. Stronzo, disse Rob, e poi aggiunse tra sé che faceva meglio a tornarsene affanculo da dov’era venuto, che manco lo conosceva quello, e intanto dava dei pestoni a una zolla, infuriato con sé stesso per essere caduto nella provocazione.
Dài, dài, tranquillo, non ne vale la pena, qui c’è una partita da vincere, un campionato da vincere. I compagni gli si ammucchiarono intorno e si ritrovarono di nuovo in cerchio intorno a Glenn, a succhiare arance e bere acqua dalla bottiglia a grandi sorsate.

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