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Generazione Peter Sagan di Giacomo Pellizzari. Un estratto

«Peter Sagan è un’icona pop. Ha ribaltato l’estetica del ciclismo e un pezzo della sua narrazione» scrive Angelo Carotenuto sul Venerdì di Repubblica. Un campione vero ma anche un tipo molto cool, uno che sa divertirsi e rifiuta istintivamente il mito della sofferenza in bici. Proprio questo lasciarsi dietro le spalle l’immaginario doloroso e nostalgico del ciclismo è forse la chiave del suo straordinario successo, anche fuori dai confini della disciplina.

Qui trovate qualche breve estratto del libro. Vi ricordiamo che Generazione Peter Sagan di Giacomo Pellizzari è disponibile in tutte le librerie. Buona lettura!

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Rock come Peter Sagan
Insomma, trovo che la bici sia rock ’n’ roll e trasgressiva. E mi sono sempre domandato come mai, tra i professionisti, nessuno se ne fosse davvero accorto prima. Statuaria la posa di Jacques Anquetil, il francese amato dagli snob. Coriaceo l’incedere di Bernard Hinault. Aristocratico e vagamente triste quello di Miguel Induráin e di Alberto Contador. Però mai – dico mai – qualcuno che fosse dannatamente rock.
Certo, una cosa va chiarita subito: devi potertelo permettere, di essere rock ’n’ roll. Se non hai il physique du rôle, se sei ingobbito sulla sella, allora è meglio lasciar perdere. Stesso discorso per l’uso dei social: se devi esserci giusto per esserci, per far vedere che anche tu stai al passo con i tempi, allora il disastro è dietro l’angolo.
Ma uno sportivo, più precisamente un ciclista, che è sempre stato una sorta di archetipo dell’ascesi, cosa cavolo ci deve fare su Instagram?
Niente.
Oppure, tutto.

Il Bello di Vincere
Juraj, mentre segue da gregario il fratello che trionfa ai mondiali di Richmond 2015, mentre lo vede festeggiare come a lui mai sarebbe venuto in mente, prova sincero stupore. Chissà quanto c’è, in quell’istante iridato, di lui e Peter da piccoli. Delle ore ingenue e perdute, la domenica mattina, scorrazzando nel fango con papà Lubomir. Del loro tornare a casa, soltanto quando madidi di sudore e sporchi dalla testa ai piedi. Dello scarico della doccia di casa che si ingorgava irrimediabilmente per via della terra scivolata dai loro corpi sotto l’acqua bollente. In quel momento, mentre suo fratello, il campione del mondo, indossando la divisa bianca con i colori dell’iride, sale sul podio e riceve da una miss la medaglia d’oro, forse Juraj capisce che quella, in fondo, è la strada giusta. Vincere per gioire, come ragazzini.
A Richmond, dopo aver tagliato il traguardo, Peter si è fermato ad attendere tutti i suoi avversari, uno per uno. Non si è mosso verso la cerimonia di premiazione, se non dopo aver dato il cinque a ciascuno di loro. Gli avversari hanno contraccambiato più che volentieri, contagiati da un’atmosfera di festa, inattesa quanto felice. Poi, lo slovacco ha gettato i guantini e il caschetto al pubblico, esattamente come farebbe una rockstar a fine concerto con plettri e bandana. Per concludere degnamente lo show, Peter si è esibito in un bacio – «senza fine», direbbe Bruce Springsteen – con la fidanzata Katarina. Una scena da film. O, forse, più semplicemente, quello che ognuno di noi avrebbe voluto fare al suo posto.

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Storia del selfie in bicicletta.
Sono in cima al Tourmalet. Arrivarci è stata una faticaccia. Eppure, appena sganciati i pedali, il mio primo pensiero non è quello di riprendere fiato e godermi la conquista. Bensì quello di condividere e postare in diretta una foto commemorativa dell’impresa.
Il Col du Tourmalet è la salita simbolo del Tour de France, oggi c’è persino una statua che ricorda Octave Lapize, il primo ciclista che arrivò qui in cima, nel 1910. La strada era ancora sterrata, le biciclette senza cambio e l’abbigliamento assolutamente inadeguato. Leggenda vuole che Octave trovasse il tempo di urlare «assassini!» agli organizzatori.
Non c’era Facebook, non c’erano smartphone e nemmeno fotografi a immortalare la sua impresa. Ma se ci fossero stati, non ci avrebbe pensato su due volte. Credo che la superficialità dell’attimo social possa in realtà raccontare molto di più di un momento: se lo scatto è quello giusto, la storia che narra diventa più profonda. Perciò frugo con la mano nella tasca posteriore della mia maglia, cerco l’iPhone, avvolto accuratamente nel cellophane per evitare che il sudore lo danneggi (ne ho buttati via quattro prima di capire che quella era l’unica soluzione). Apro l’app della fotocamera, mi metto in posa davanti al cartello del passo e scatto il selfie. Non pago, mentre una folata di vento gelido rischia di farmi volare via lo smartphone (sarebbe il quinto, decisamente troppo), verifico che ci sia connessione. C’è. Spettacolo.

Guarda Mamma, Senza Mani!
Da Look mum no hands!, a Shoreditch, nel cuore di Londra, ordinate una fetta di torta e guardatevi intorno con calma. Il wi-fi e l’atmosfera cosy (accogliente) del locale vi consentiranno di prolungare la sosta quanto vorrete. Magari una sbirciata agli ultimi video caricati da Sagan sul suo canale YouTube, ad esempio quello in cui sfreccia per le vie di una moderna metropoli, vi aiuterà a calarvi meglio nell’atmosfera. Eviterete così – e non guasta – di dare l’impressione dell’ultimo arrivato. Da Look mum no hands!, come del resto in ogni altro bike café del mondo, Peter è un idolo, una sorta di divinità pagana o nume tutelare delle due ruote, da venerare e imitare. Quello che si incontra qui dentro è il suo popolo.
Lo stesso nome del locale, che in italiano si traduce come «Guarda mamma, senza mani!», pare uscito dalla sua bocca. Una di quelle affermazioni che tanto lo hanno reso celebre tra i ciclisti: un’esclamazione, un intimo sussulto di gioia. Quello che qualunque bambino ha provato almeno una volta nella vita, quando, pedalando, si è accorto che il suo mezzo poteva procedere in perfetto equilibro, anche senza l’ausilio rassicurante delle mani. Pura magia, pura adrenalina. O, più semplicemente, il movimento accelerato e continuo della felicità.
«Guarda mamma, senza mani!». Forza, diciamolo tutti insieme. Sagan in testa, col megafono.

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