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Suite 200 di Giorgio Terruzzi. Un estratto

Pubblichiamo un estratto di Suite 200 di Giorgio Terruzzi, vincitore del Bancarella Sport, ripubblicato in una nuova edizione per il venticinquesimo anniversario dalla morte di Ayrton Senna.

Ricordiamo che il volume è appena uscito ed è disponibile in tutte le librerie italiane. Buona lettura!

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A Imola Senna era arrivato il giorno prima, giovedì, più tardi del solito. Dalla casa nell’Algarve, Portogallo, aveva raggiunto l’aeroporto di Faro poco prima di mezzogiorno e si era imbarcato sul suo aereo personale, pilotato dal fedelissimo Owen O’Mahony, con lui dal 1989. Destinazione: Forlì. A Owen aveva lasciato il pass intestato al padre, Milton, per permettergli di entrare nel paddock di Imola. Un elicottero l’aveva prelevato e trasportato a Padova dove era in programma la presentazione di tre nuovi modelli della bicicletta Senna, una mountain bike costruita dall’azienda italiana Carraro. La giacca verde scuro e la cravatta sarebbero sparite durante il volo, sempre in elicottero, verso il circuito. A Padova, Senna era stato, al solito, preciso e disponibile. La disciplina che imponeva a sé stesso riguardava anche le attività promozionali, per le quali aveva sviluppato negli anni un talento a parte. Così, si era sforzato, anche in quella occasione, di comportarsi come tutti i presenti si aspettavano. Educato, semplice e pronto a rispondere nel suo ottimo italiano, pur conservando una curiosa riservatezza. Ma una volta atterrato a Imola, Ayrton iniziò a muoversi dentro una nuvola di pensieri cupi.

Alla vigilia della terza gara del mondiale era a zero. Zero punti in classifica. Un testacoda a Interlagos, San Paolo, la sua pista, imbarazzante come una macchia di sugo sullo smoking. Tamponato a Aida, Giappone, al giro uno. Fermo. Fuori. Mentre l’altro andava a vincere, due volte di seguito. L’altro si chiamava Michael Schumacher, aveva appena compiuto venticinque anni. Chi fosse, esattamente, Ayrton l’aveva compreso a prima vista, annusando le sue orme fresche. Era un animale simile a lui, feroce, pericoloso, senza un filo di grasso, ogni timidezza spazzata via dall’ambizione. Stessa pasta, la stessa materia prima. Guidava una Benetton. E Senna era convinto che si trattasse di una macchina irregolare. Dotata di dispositivi elettronici vietati dal nuovo regolamento, primo tra tutti il controllo della trazione. Non solo. Dopo sei anni ad altissima intensità – sportiva e affettiva – trascorsi alla McLaren, Senna aveva deciso di passare alla Williams, e di quella decisione si era subito pentito. Non era cosa da ammettere così, pubblicamente, ma vederlo con addosso una tuta azzurra e bianca dopo averlo visto in rosso per un tempo tanto lungo, costantemente marchiato dal suo volto, dal suo casco, dal suo muoversi da padrone, da capo, produceva uno strano effetto su chiunque, a cominciare da Juracy, la governante brasiliana che badava alle sue cose da una vita, e lo stesso effetto lo faceva su ciascuno di noi, ancora un po’ spiazzati mentre compariva vestito in quel modo per un’intervista o una conferenza stampa.
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Non si trattava semplicemente di un disagio estetico. Senna quel trasloco l’aveva voluto fortemente. La Williams aveva appena dato il quarto titolo mondiale a Alain Prost, il pilota che era stato suo compagno alla McLaren per due anni, scatenando un antagonismo spaventoso nei tratti, strepitoso nei fatti. Un titolo a testa, il primo vinto da Ayrton nel 1988; il terzo vinto da Alain nel 1989, dopo quelli, sempre McLaren, conquistati nel 1985 e nel 1986.
Senna non si era limitato a lottare contro Alain. Aveva cercato di annientarlo. E Prost aveva combattuto Ayrton più di ogni altro, meglio di ogni altro. A costo di passare alla Ferrari nel 1990, di restare fermo un’intera stagione, nel 1992, per progettare un rientro perfetto. Prima guida Williams per il 1993, ponendo come condizione tassativa di non avere di nuovo tra i piedi quel brasiliano colpevole di avergli rovinato la vita, la piazza, il sonno.
Un’operazione diplomatica magistrale che aveva costretto Senna a un handicap tecnico evidente. La McLaren quell’anno: niente di che. Mentre Prost andava a stravincere il mondiale per poi annunciare il ritiro. Senna poteva tenersi l’ammirazione collettiva, l’amore della gente, il rispetto di chi riconosce la storia dei campioni. Intanto, quattro titoli contro tre, da annotare nel bilancio.
Al contrario di ogni previsione, la Williams consegnata a Senna per le corse del 1994 aveva perso la luce, non era più una macchina vincente. Ayrton doveva guidare in una posizione scomoda e sgradita; il nuovo regolamento tecnico complicava lo sviluppo: pochi giorni prima un test sulla pista francese di Nogaro non aveva fornito segnali confortanti, nonostante le molte modifiche aerodinamiche, all’impianto dello sterzo, alla posizione del volante.
«Non riesco a guidare, è tutto rigido, la macchina salta in continuazione. È una sedia elettrica». Questo aveva detto, arrivando a Imola, a questo pensava come una bestia in gabbia prima di una corsa che doveva vincere ad ogni costo, mentre si rendeva conto che forse non ci sarebbe riuscito, annodato com’era dentro un rebus tecnico irrisolto. E così, gli impegni di rappresentanza, le pubbliche relazioni, ciò che lui stesso aveva messo in moto, ipotizzando di gestire una situazione meno complicata, erano diventati un peso eccessivo.

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