I mastini di Dallas

Un profilo di Peter Gent

 

«Scrivere è l’unica cosa che mette paura quasi quanto il football». Peter Gent

«Scrivere è l’unica cosa che mette paura quasi quanto il football». Peter Gent

 

Figlio di un postino e di una segretaria scolastica, George Davies Peter Gent è nato il 23 agosto 1942 a Bangor, Michigan, ed è morto per complicazioni polmonari dopo una lunga malattia il 30 settembre 2011, nella casa di famiglia dove era tornato a vivere dal 1990. Aveva sessantanove anni, un figlio e una figlia avuti dai due matrimoni (entrambi conclusi con un divorzio), e quattro nipoti.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, prima di diventare uno scrittore, Gent è stato per cinque anni un professionista del football americano, un’esperienza che ha sempre ricordato come la più intensa ed eccitante della sua vita, nonostante gli aspetti negativi, e che costituisce la base della sua produzione narrativa. All’università di Michigan State, tuttavia, Peter era una promessa del basket, non del football, e nel 1964 fu selezionato dai Baltimore Bulletts al quattordicesimo turno del draft Nba. Ma un po’ a sorpresa, nello stesso anno fu selezionato anche dalla squadra di football dei Dallas Cowboys, e dopo il ritiro in California ottenne un contratto per giocare nella Nfl. In seguito dichiarò di essere andato al provino perché gli avevano promesso 500 dollari solo per presentarsi sul campo. (Non era la prima volta che i dirigenti dei Cowboys provavano a lanciare in prima squadra un giocatore con poca o nessuna esperienza nel football: l’esperimento era andato a buon fine un paio di anni prima con Cornell Green di Utah State, e sarebbe stato ripetuto senza esito nel ’67 con Pat Riley, futura leggenda della Nba sia da giocatore che da allenatore. «L’idea» ha dichiarato il presidente e direttore generale dei Cowboys di allora, Tex Schramm «era di pescare qualche atleta di valore che fosse troppo basso per giocare come ala grande e non abbastanza rapido per giocare come guardia nella Nba).

Gent, col suo metro e novantacinque di altezza per novantacinque chili di peso, fu provato prima come defensive back, ma alla fine, grazie alla sua resistenza fisica e alle abili mani in ricezione finì per giocare come wide receiver, o flanker, (il giocatore d’attacco che compie le azioni più spettacolari, scattando verso la meta per ricevere il lancio del quarterback). In quel ruolo riuscì a emergere anche grazie alla presenza in squadra del velocissimo afroamericano Bob Hayes (ex sprinter olimpico), che attirava su di sé la maggior parte delle attenzioni difensive avversarie. Quel ruolo lo esponeva però anche a pericolosi placcaggi e gravi infortuni. Durante la sua stagione da matricola, i Cowboys raggiunsero comunque la prima di una lunga serie di partecipazioni ai playoff. Gent (da giocatore noto come «Pete»), ebbe la sua annata migliore nel 1966, con 27 ricezioni e 474 yard conquistate, ma in seguito ad alcune manovre di mercato dei Cowboys si ritrovò a giocare nel ruolo meno congeniale di tight end.

Nel 1968 Pete fu ceduto ai New York Giants, che lo tagliarono durante il ritiro dell’anno successivo. Nel 1969, a ventisette anni, dopo cinque stagioni, due operazioni al ginocchio, un problema serio alla schiena, varie dita e costole rotte, e quattordici tra fratture e dislocazioni del setto nasale, la sua carriera come giocatore nella Nfl era in pratica finita. Ancora incapace di mettersi alle spalle il professionismo, Pete tornò a Dallas e visse probabilmente il periodo più difficile e deprimente della sua vita («un incubo»), come avrebbe ricordato molti anni dopo, nella prefazione alla riedizione del suo debutto narrativo: «Anybody who has made it as a professional football player has survived the horror of real violence, facing the monster that lives in his heart – these men were true gods in ruins».

Per qualche anno, Gent tentò di riciclarsi come commentatore televisivo e come dj, ma senza molta fortuna. Infine decise di scrivere: il suo esordio, I mastini di Dallas (North Dallas Forty), uscì nel 1973 ed ottenne un immediato successo. L’adattamento cinematografico del 1979, diretto da Ted Kotcheff (il futuro regista di Rambo) e interpretato da Nick Nolte, aumentò ulteriormente la popolarità del romanzo e delle denunce che conteneva. La sceneggiatura del film fu scritta dallo stesso Gent insieme a Kotcheff e al produttore Frank Yablans, che litigarono furiosamente – si dice – durante la stesura del copione. In seguito, Gent ha scritto altri cinque libri, tutti legati allo sport: Texas Celebrity Turkey Trot (1978) e The Franchise (1983), ancora ambientati nel mondo del football, ma senza particolari riferimenti autobiografici; North Dallas After 40 (1989), seguito meno felice dell’opera prima; The Conquering Heroes (1994), sulla corruzione nel basket universitario; e The Last Magic Summer (1996), un apprezzato memoir sull’esperienza di Gent come padre single che si riavvicina al figlio, dopo un turbolento divorzio, allenando la sua squadra di baseball.

 

La rosa dei Dallas Cowboys nel 1964. Gent è il numero 35 (seconda fila, primo giocatore da sinistra).

La rosa dei Dallas Cowboys del 1964. Gent è il numero 35 (seconda fila, primo giocatore da sinistra).

 

Il libro

Il 2 ottobre 2011, due giorni dopo la morte di Gent, sul blog del «New York Times» dedicato al football americano, il curatore Andy Barall ha sintetizzato così i contenuti e il senso più ampio dei Mastini di Dallas: «It was a story of violence, drugs, racism, commercialism and hypocrisy». In perfetta sintonia – potremmo aggiungere – con il clima di contestazione del decennio in cui vide la luce, perché il debutto di Gent è un frutto e al contempo un simbolo della controcultura sbocciata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.

Il personaggio di Phil Elliot, alter ego dell’autore, rientra così nella categoria degli antieroi letterari che per amore della libertà entrano in collisione con un sistema repressivo (una categoria di cui fanno parte il Nick «mano fredda» dell’omonimo film con Paul Newman e il McMurphy di Qualcuno volò sul nido del cuculo, interpretato al cinema da Jack Nicholson). A questo elemento narrativo, Gent combina una rappresentazione innovativa del mondo dello sport.

Nel 1973, infatti, le denunce rivolte all’establishment della Nfl e il crudo realismo del romanzo (che non risparmia descrizioni esplicite di sesso, uso di droghe e violenti scontri sul campo) destarono un notevole scalpore. Insieme a due controversi memoir usciti in quegli anni, Out of Their League (dell’ex linebacker dei Cardinals Dave Meggyesy) e Ball Four (scritto dal lanciatore delle Major Leagues Jim Bouton), I mastini di Dallas contribuì a far conoscere all’opinione pubblica americana l’altra faccia dei loro sport preferiti, la faccia più sporca, riprovevole e disumana – che corrompeva le vita dei giocatori, procurandogli talvolta (come dichiarò Gent) danni fisici e psicologici permanenti.

Il giornalista sportivo Stephen Singer scrisse all’epoca sul «Washington Post»: «[Gent’s] book is without question the definitive rendition of what life is really like in the Nfl».

Dick Schaap, scrittore e collaboratore di Espn, lo definì uno dei migliori romanzi mai scritti sullo sport, e sulle pagine del «New York Times» aggiunse: «[Gent] balances shock with humor, irony with warmth, detail with insight, and ends up with a book that easily transcends its subject matter».

In molti, oggi come allora, leggono la violenza del football raccontata da Gent, e lo sfruttamento dei giocatori da parte della lega, come una metafora della società americana nel pieno dell’escalation militare in Vietnam. Una metafora peraltro dichiarata, nel primo capitolo del libro, da un accenno all’incrocio di Dallas dove fu assassinato Kennedy.

Una scena dal film del 1979: «Ogni volta che dico che è un business voi dite che è un gioco e ogni volta che dico che dovrebbe essere un gioco lo chiamate business».

 

L’establishment del football, prevedibilmente, condannò e respinse il romanzo, sentendosi chiamato in causa dalla spietata rappresentazione di Gent. D’altra parte, diversi personaggi del libro furono identificati subito con alcuni veri esponenti dei Dallas Cowboys. Tra questi, il fondatore della società Clint Murchison, il presidente Tex Schramm, il leggendario allenatore Tom Landry, e il quarterback Don Meredith, amico e confidente di Pete ai tempi dei Cowboys. I primi tre, naturalmente, non facevano una bella figura nel libro, ma anche Don si rifiutò di interpretare il personaggio di Seth Maxwell nel film temendo che la gente potesse pensare che fosse lui («But it is you» gli risposero). Molti nella lega accusarono Gent di aver «esagerato in modo sensazionalistico gli aspetti più grotteschi del football». Tex Schramm, in particolare, definì il libro offensivo e malizioso – «a total lie» – e Gent una persona «con un approccio malato alla vita», una mela marcia che intendeva screditare l’organizzazione dei Cowboys e tutto l’ambiente della Nfl – che a sua volta negò decisamente l’uso smodato di sostanze stupefacenti e dopanti descritto nel romanzo.

 

Michael Oriard, professore della Oregon State University e autore di vari libri sul football, ha detto:

Writing a quintessential 1960s novel, Gent shared the apocalyptic vision of writers such as Vonnegut, DeLillo, Pynchon, and Mailer.

Una lettura condivisa da Jason Flores-Williams sul «Post Road Magazine»:

Gent played for the Dallas Cowboys in the late 60s. He was part of his generation, he questioned the status quo. He understood football to be what it is – a new kind of American religion. He saw deep in the heart of our society.

Sulla stessa lunghezza d’onda Michael Carlson su «The Independent»:

Almost four decades after it was published, North Dallas Forty remains the best novel ever written about American football. […] In the 1960s, television propelled the National Football League into sporting pre-eminence in America. Society was changing […]. It was a time of serious protest against war and inequality, and football’s violence, military ethos, and enforced conformity seemed to many to epitomise the worst aspects of America.

 

L’establishment del football, prevedibilmente, condannò e respinse il romanzo, sentendosi chiamato in causa dalla spietata rappresentazione di Gent. D’altra parte, diversi personaggi del libro furono identificati subito con alcuni veri esponenti dei Dallas Cowboys. Tra questi, il fondatore della società Clint Murchison, il presidente Tex Schramm, il leggendario allenatore Tom Landry, e il quarterback Don Meredith, amico e confidente di Pete ai tempi dei Cowboys. I primi tre, naturalmente, non facevano una bella figura nel libro, ma anche Don si rifiutò di interpretare il personaggio di Seth Maxwell nel film temendo che la gente potesse pensare che fosse lui («But it is you» gli risposero). Molti nella lega accusarono Gent di aver «esagerato in modo sensazionalistico gli aspetti più grotteschi del football». Tex Schramm, in particolare, definì il libro offensivo e malizioso – «a total lie» – e Gent una persona «con un approccio malato alla vita», una mela marcia che intendeva screditare l’organizzazione dei Cowboys e tutto l’ambiente della Nfl – che a sua volta negò decisamente l’uso smodato di sostanze stupefacenti e dopanti descritto nel romanzo.

Trent’anni dopo, durante una bella intervista radiofonica con Gent, il giornalista americano Scott Simon (autore di Il mio nome è Jackie Robinson, edito da 66thand2nd) ha dichiarato che oggi sarebbe impossibile negare le «accuse» contenute nel libro, alla luce degli scandali successivi che hanno minato la credibilità della Nfl come quella di tante altre discipline sportive. Ascolta qui sotto l’intervista originale dal sito della National Public Radio.