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L’Aquila, Buenos Aires, New York e Parigi. Quando sarai nel vento di Gianfranco Di Fiore.

Pubblichiamo quattro brevi estratti da Quando sarai nel vento, il romanzo di Gianfranco Di Fiore. Bianco, rosso, blu e giallo: sono le sezioni in cui il libro è diviso e per ognuna di esse l’autore ha generato un movimento, un’emotività, un’atmosfera diversa. Ecco allora L’Aquila, Buenos Aires, New York e Parigi, le città che compongono questa sinfonia in quattro movimenti.

Quando sarai nel vento, disponibile in libreria e sul nostro sito dal 22 marzo, sarà presentato in anteprima nazionale a Book Pride Milano, sabato 24 marzo, ore 15.00 in Sala Nemo. A dialogare con Gianfranco Di Fiore ci sarà la scrittrice Helena Janeczek.

Buona lettura da 66thand2nd!

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BIANCO (L’Aquila)
L’Aquila era una distesa ingiallita di polvere e pietre. La scrutavo dall’alto. Le lastre della cabina erano pulite e grandi, e tutto ciò che si poteva osservare al di là sfumava in un bagliore cisposo, una macinazione di case e anime da cui saliva una leggera brezza di morte. La funivia che scendeva dal Gran Sasso aveva i sedili freddi e le cabine conservavano il loro profumo di lievito. Le pareti di vetro non erano ancora state macchiate con scritte e frasi d’amore, con date e commenti di atroci giorni di scuola senza scuola. La paura aveva generato una nuova tipologia di rispetto priva di movimento. Tutto doveva rimanere uguale. Ognuno nascosto nel suo nuovo rifugio, lontano dagli alberi spezzati, in fuga dai cornicioni rotti. Non si avvertiva più l’esigenza di incontrarsi, anche solo per unire i lamenti, di occuparsi delle cose del mondo, di scavalcare le transenne per andare a rubare nelle proprie case. Le persone preferivano isolarsi e non prendere alcuna iniziativa. Occorreva tempo per disseppellire la vita rimasta schiacciata dalle macerie. E la gente che aveva deciso di restare non trovava più la forza per ritornare nelle strade, nelle piazze deserte e nei vicoli blindati dal ferro. I superstiti, lì all’Aquila, avevano solo tempo per i ricordi sporchi di cemento.

* * *

ROSSO (Buenos Aires)
Poi di colpo l’Avenida Brasil si svuotò, i palazzi cominciarono a tingersi di mura azzurre e verdi, balconi immersi in quadri viola e turchesi. In quella porzione di Constitución non si vedevano turisti né visi dal colorito chiaro, nessuna faccia amica; agli angoli dell’avenida c’erano banchetti che vendevano cannucce metalliche e vasi di legno con le intarsiature, in cui bere il mate. Sugli stessi banchetti potevi trovare confezioni rosse e blu di alfajor, o alcune bottiglie di Carcassonne, calde come il brodo. Dopo il Sol y Luna fu il turno dell’hotel Río, la pensione abc, il Casablanca e l’hotel dai muri coperti di piastrelle bianche e le grate in ferro. Marlena poggiò la valigia a un muro, poi si coprì gli occhi con un braccio. Era sudata e respirava a fatica. Mi chiese dell’acqua frizzante e mi portò le mani sulle spalle come una donna affezionata e pronta a giocare, a credere in me, e a farmi una promessa proprio lì, in quella strada circondata dai vizi.

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BLU (New York)
In strada, il rumorio ferroso di Atlantic Avenue si era attenuato, le auto si erano consumate sotto il cielo annerito di Brooklyn ed erano poche persino le famiglie che acquistavano cibo e decorazioni per il Natale. Un barbone con le stampelle e le dita dei piedi scure prese del vino in cartone e andò alla cassa. Lo osservai come un fatto qualsiasi del mondo; un meccanismo vitale, insignificante e necessario al tempo stesso, dimenticato nella complessità dei fenomeni naturali. Aumentai il passo fino a raggiungerlo e gli restai attaccato per un attimo. La sua figura maleodorante e china mi incitava a pensare alla vita, ma da una prospettiva di negazione. Si poteva scomporre la propria esistenza in infinite parti e momenti, decostruire l’anima e la mente, separare le scelte dai motivi, scontornare i sogni dalle pulsioni fino a diventare niente: un vetro liscio attraverso cui passa la luce della strada, o un vagabondo che beve vino da un tubo di cartone.

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GIALLO (Parigi)
Uscimmo di casa dopo le nove con le mascherine sulla bocca e i guanti con cui eravamo obbligati a toccare il mondo. La Senna era scura, depositava sulle rive diversi topi morti e pesci gonfi che rendevano l’aria irrespirabile. Non c’erano auto lungo il quai Georges Gorse e la maggior parte dei bar erano chiusi e sprangati. Ogni tanto passavano dei cani, escoriati e pieni di sangue, dentro l’erba contaminata delle aiuole che lambivano il fiume, e alcuni bevevano quell’acqua che brillava come olio e sapeva di benzina. Poi morivano da qualche parte, tra i pilastri di cemento del vecchio molo, di fronte all’Île Seguin. Mentre guidavo cercavo negli specchietti retrovisori il volo di un passero ancora sano, i riflessi olivastri di una lucertola o qualsiasi presenza animale in grado di riconciliarmi con un pensiero rigoglioso e naturale, un tuffo nel passato del nostro Pianeta in cui dall’alto cadevano unicamente sole e stelle. La pioggia della notte aveva annerito le facciate dei palazzi lungo boulevard Jean Jaurès e c’erano degli uomini con gli stivali e i giacconi larghi che pulivano le vetrine dei negozi ancora aperti, affacciati sui marciapiedi sommersi dalle foglie marce. Il coccodrillo della Lacoste si era scolorito in un arancio smunto e i teli allungati sotto l’insegna della Gap erano bucati: si poteva vedere il cielo, aggredito dalle nubi inquinate, dentro i crateri radioattivi scavati dai temporali.

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