In cerca di Transwonderland

Un estratto da In cerca di Transwonderland di Noo Saro-Wiwa.

Lagos

Mentre io passavo le estati della mia infanzia in una modesta casa alla periferia di un quartiere tranquillo nella monotona Port Harcourt, alcuni miei compagni, ricchi nigeriani, vivevano i miei sogni a Victoria Island, la zona più costosa di Lagos, all’epoca un’isola vera e propria, mentre ora è collegata alla città da una lingua di terra.

Le loro vite erano una massa indistinta e inaccessibile di locali notturni, circoli nautici e ristoranti con le insegne al neon – molto più eccitanti dell’Inghilterra. VI, come viene chiamata, avrebbe potuto essere un degno sostituto di tutte quelle vacanze ai Caraibi cui anelavo ma, con mia grande frustrazione, mio padre non ci portò mai a Lagos. Ora ero lì a Victoria Island, da sola, per riabituarmi ai marciapiedi veri, ai supermercati, ai marchi noti in tutto il mondo e all’aria condizionata.

In assenza di commercianti informali le strade comunicavano un senso di pace e spaziosità. Dietro i cancelli di sicurezza sorvegliati si trovavano le residenze signorili, costruite appositamente per non dare nell’occhio, e gli okada zigzagavano a rispettosa velocità tra le 4×4 con i finestrini oscurati. Qui la Nigeria si dà una spolverata e stringe la mano al mercato globale: ristoranti cinesi, thailandesi e italiani, banche straniere, gallerie d’arte e bar sportivi costeggiavano le vie. Sulla riva c’erano diverse ambasciate, con una decina di guardie armate che chiacchieravano all’ombra delle palme. Più a est una sfilza di circoli nautici affacciati sulla laguna si snodava lungo le coste dell’isola. Nel mare correva qualche acquascooter. È venuta voglia anche a me. Forse i due expat inglesi di mezza età che bevevano al bar di uno dei circoli ne sapevano di più. C’era diffidenza nei loro occhi, quel timore che leggo in faccia agli occidentali quando un africano li avvicina per un qualche motivo. Ingoiando il mio orgoglio ho chiesto dove potessi affittare un acquascooter. Mi hanno indicato il circolo accanto. In effetti avevano degli acquascooter, così mi ha detto il responsabile, ma i motori erano fuori uso e in Nigeria non c’era nessuno che li riparasse; avrebbero dovuto importarne di nuovi. Ho guardato con occhi languidi quelle moto gialle che ballonzolavano sull’acqua, scintillanti e inutili.

 

 

Ho cercato qualcos’altro da fare. Seguendo il consiglio della nuova edizione nigeriana di «Time Out», ho visitato Terra Kulture, un centro culturale con ristorante annesso. I muri erano tappezzati di eleganti fotografie in bianco e nero che ritraevano Victor Olaiya, Fela Kuti e altri celebri musicisti. Il sole inondava il locale dalle fi­nestre a tutta parete che si aprivano su giardini freschi e impeccabili. Di rado a Lagos l’architettura ha un effetto così terapeutico. Quando il personale mi ha detto che il piatto di riso e plantano mi sarebbe costato diciotto dollari, una cifra folle, mi sono rassegnata al fatto di pagare non solo per il cibo ma anche per merci rare come stile e serenità.

Al piano superiore c’era la galleria d’arte, gestita da un impiegato giovane e attento, con gli zigomi alti tipici del Camerun e un sorriso zelante. Dio benedica il settore privato. Mi ha invitata a dare un’occhiata in giro. I dipinti, la ritrattistica moderna e le foto aeree dello skyline di Lagos erano stupendi, ma non c’era niente che uguagliasse la raffinatezza delle antiche sculture astratte. In un teatro in fondo alla galleria stava per cominciare uno degli spettacoli pomeridiani, come da programma. Mi sono unita al pubblico composto da una ventina di persone sedute qua e là sulle sedie di legno. Con un’ora di ritardo le luci si sono abbassate e i riflettori hanno inondato il palco. Nella scena iniziale un’attrice spingeva una sedia a rotelle cercando di raggiungere il soggiorno allestito sulla scena, ma la carrozzella si è incastrata sulla soglia. Per sessanta secondi carichi di imbarazzo la donna ha continuato a spingere e sollevare la carrozzella nel tentativo di far scorrere le ruote oltre la porta. L’attrice seduta, nel ruolo di una paraplegica, è rimasta a guardare assumendo un’aria impotente, mentre il pubblico assisteva serio.

Finalmente lo spettacolo è cominciato. Si trattava di una pièce a tema familiare: all’indomani della morte di un politico, le tre figlie scoprono alcune terribili verità sul suo conto. Lo scopo del regista era offrire uno scorcio sulla complessità della vita familiare nigeriana, ma di gran lunga più interessante è stato il comportamento del pubblico. Durante lo spettacolo la gente chiacchierava o parlava al cellulare ad alta voce senza il minimo riguardo. Ma a distrarre ancora di più era la partecipazione non richiesta del pubblico all’azione. A mano a mano che la trama si dipanava, gli spettatori davano libero sfogo alle loro opinioni. «Storie!» ha gridato una signora quando uno dei personaggi ha detto una bugia («storie» è la parola che i nigeriani usano per accusare qualcuno di mentire).

Infastidita dalle frequenti interruzioni, ho preso a mugugnare, sospirare, schiarirmi la gola e battere i piedi a terra in segno di disapprovazione, nella speranza che quella platea chiassosa recepisse il messaggio. La mia irritazione ha lasciato tutti indifferenti e il risultato è stato che ho perso completamente il filo della storia. La partecipazione del pubblico di per sé è una bella cosa e la tecnica del botta e risposta è uno degli aspetti che preferisco della cultura africana. Non c’è niente di più formidabile che osservare come la gente replica alle parole di un oratore, esprimendo tra una frase e l’altra ciò che sente con teatralità, e amplificando così l’emozione (la versione live di Tyrone, un brano della cantante Erykah Badu, è una delle massime espressioni di partecipazione del pubblico). Ma era il caso di farlo durante una pièce drammatica? Secondo me no.

Un’altra signora corpulenta, seduta in prima fila, era ansiosa di comunicarci che aveva già capito tutto. «È la loro sorellastra!» ha gridato, indicando la cameriera sul palco. «Sì, sì, è lei!».

Due minuti dopo, lo spettacolo ha raggiunto l’apice con la battuta finale della cameriera che ha confessato di essere la figlia illegittima del politico defunto: «Era mio padre».

«Visto, ve l’avevo detto» ha commentato la grassona, compiaciuta dalla sua perspicacia, mentre le luci si abbassavano. Il cast ha fatto l’inchino, il pubblico ha applaudito e la mia rabbia è implosa in una sorta di rassegnazione. Era inutile sperare in un po’ di silenzio. A Lagos era quella la maniera di assistere a uno spettacolo e se volevo godermi la città dovevo semplicemente farci l’abitudine. In Nigeria ogni diamante, perfino Victoria Island, è grezzo.

© Noo Saro-Wiwa, 2012
Traduzione di Caterina Barboni
© 66thand2nd, 2015

 

L’incipit del racconto L’amore non ha occhi, apparso nell’antologia La felicità degli uomini semplicia cura di Alain Mabanckou, insieme ad altri quattordici racconti «calcistici» di autori africani.

Londra

Il giorno di Natale, a mezzanotte, John Nazor era andato a messa, anche se celebrare la nascita di Gesù era l’ultimo dei suoi pensieri. Era una situazione di emergenza, e John aveva deciso di dedicare la serata in chiesa ad alcune speciali preghiere calcistiche. Una sconfitta dell’Arsenal era fondamentale, il che significava che tutte le sue risorse spirituali dovevano essere indirizzate a quello scopo. Lindi, la sua ragazza, non era d’accordo, ma John si sentiva la coscienza a posto: «Possiamo festeggiare la nascita di Gesù in qualsiasi giorno dell’anno» le aveva detto. «Mica è nato davvero il 25 dicembre». John lo aveva letto da qualche parte: quando l’imperatore Costantino si era convertito al cristianesimo, aveva dichiarato (influenzato dai suoi astrologi greco-egiziani) che Cristo era nato nel giorno del solstizio d’inverno, come il dio Sole degli egizi.

Questa informazione aveva modificato il suo modo di vedere le cose. Il 25 dicembre per John non era più un giorno da venerare, ma una data arbitraria. Il 26 dicembre, invece, era una data cruciale per il campionato inglese, in calendario c’era un appuntamento comprovato e inamovibile, e dunque sacro in ogni senso. La nuova consapevolezza permetteva a John di pregare per quello che gli pareva durante la messa di Natale. E quell’anno aveva un paio di richieste importanti: insieme alla solita supplica per una vittoria del Tottenham e una disfatta dell’Arsenal, aveva pregato Dio di dargli la forza di sopportare la riunione di famiglia che si sarebbe tenuta proprio il 26 dicembre.

 

 

John non vedeva i parenti della sua ex moglie dal giorno del divorzio, sei anni prima. Il tempo aveva ammorbidito la sua ex suocera, e ora la donna voleva che la famiglia si riunisse per il bene del figlio di John, Kwame. John non capiva il motivo di quella farsa. In famiglia, secondo lui, pochi frammenti di felicità contano più di un’unione infelice. Passare una giornata con quel ramo del pool genetico di Kwame – un covo di tifosi dell’Arsenal – avrebbe messo a dura prova la sua resistenza e il suo autocontrollo. Sarebbe stato costretto a stare lì seduto a guardare la partita tra Arsenal e Newcastle, il che significava che alla fine qualcuno avrebbe gongolato e qualcun altro avrebbe schiumato di rabbia, provocando una tensione dalle conseguenze imprevedibili.

Sentendosi in minoranza, John aveva cercato appoggio in Lindi, la sua ragazza, che aveva accettato di accompagnarlo alla rimpatriata. Mentre si dirigevano in macchina verso la casa degli ex suoceri, Lindi notò che John non smetteva di gesticolare, aggrottare la fronte e borbottare.

«Che fai, litighi da solo?» gli domandò.

«No, sto… Sto pregando».

Lindi alzò gli occhi al cielo. «Se ti prepari psicologicamente a litigare, finirai per litigare. Pensa positivo, tesoro. È per il bene di Kwame. Avrà intorno tutti quelli che gli vogliono bene». John lanciò un’occhiata al figlio attraverso lo specchietto retrovisore. Il piccolo, tutto preso a disegnare, aveva le labbra arricciate per la concentrazione. Come stava bene con quel berretto di lana blu del Tottenham, pensò John. Dio aveva fatto Suo figlio a propria immagine e somiglianza – e John non era stato da meno.

Kwame, tuttavia, si mostrava distante e silenzioso quando era con il padre. John era sicuro che i parenti del ramo materno gli parlassero male di lui, ma Lindi aveva liquidato quell’ipotesi. «È solo che Kwame avverte il tuo nervosismo» gli aveva detto. Era vero, John era sensibile alle espressioni del viso di Kwame e si ritirava nel suo guscio non appena il figlio lo guardava in un certo modo, creando così un circolo vizioso.

I tre arrivarono alla casa di Lombardy Street. Vicino alla porta d’ingresso incombeva la figura alta e ingobbita del nonno di Kwame, Alik. John era convinto che la fragilità del vecchio lo rendesse ancora più minaccioso, perché Alik era il genere d’uomo che compensava il declino fisico affinando i propri giochetti psicologici.

«Nonno!». Il ragazzo corse verso Alik e si lanciò tra le sue braccia.

Il vecchio ringhiò scherzosamente. «Come sta il mio nipote preferito?». Alik mise giù il piccolo e salutò Lindi con un sorriso sincero. John, accolto con un severo cenno del capo, guardò Lindi e la sua ex moglie, Sabah, che ridevano scambiandosi un bacio di convenienza. Non c’era ostilità tra le due donne, grazie a Dio: era creature simili, unite dal disprezzo che nutrivano per il calcio e dal fatto di conoscere entrambe i lati nascosti di John. La madre di Sabah, Barine, accolse Lindi con calore. Andava tutto bene, in realtà; tutti andavano d’accordo con tutti – tranne John. Lui era il fulcro del risentimento, che non era stato seppellito così in profondità come si era augurato. Il vecchio Alik non aveva perdonato John per aver tradito Sabah (non che Alik avesse la fedina pulita, da quel punto di vista, ma non era il tipo da lasciare che l’ipocrisia attenuasse il rancore).

John guardò con apprensione il Vecchio che toglieva la sciarpa blu del Tottenham dal collo di Kwame. «Non gli serve quest’affare» disse Alik. «Fa caldo qui». Alik lanciò la sciarpa verso John, e condusse tutti in soggiorno prima che lui potesse reagire.

© Noo Saro-Wiwa, 2016
Traduzione di Michele Martino
© 66thand2nd, 2016

 

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Un ritratto di Noo Saro-Wiwa