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Dany Laferrière ricorda il terremoto di Haiti al festival Letterature di Roma

Dany Laferrière a Letterature 2015

Dany Laferrière a Letterature 2015

 

In questi giorni in Italia per promuovere due suoi libri, Tutto si muove intorno a me (66thand2nd) e Paese senza cappello (nottetempo), lo scrittore haitiano Dany Laferrière è tornato in più occasioni a ricordare il terribile terremoto che ha colpito il suo paese nel gennaio del 2010. Lafèrriere, esule in Canada da diversi anni, si trovava a Port-au-Prince per partecipare a un festival letterario, e ha vissuto in prima persona le giornate drammatiche che hanno seguito il sisma.

Leggi qui il pezzo firmato da Laferrière su «ttL» della »Stampa».

 

Di seguito, invece, il testo inedito integrale, apparso in versione ridotta sul «Corriere della Sera», che Laferrière ha letto per il pubblico di Letterature, a Roma, il 18 giugno scorso.

Sono una macchina da presa di Dany Laferrière

Non c’è da stupirsi che questo libro si imponga così. Questo libro è Tutto si muove intorno a me. L’ho scritto senza sapere di scrivere un libro, durante il terremoto di Port-au-Prince. In un simile sconquasso, bisogna lasciarsi trascinare. Troppo spesso cerchiamo di scrivere invece di consentire agli eventi di imprimersi sulle nostre retine o scorrere nelle nostre vene. Sul campo da tennis in cui mi trovavo con un gruppetto di scrittori riuniti nella capitale haitiana per un convegno, avevo deciso di non permettere al sisma di sconvolgere le mie abitudini. Non che sia insensibile a ciò che accade intorno a me. Immergiamoci di nuovo in quel momento. Non appena chiudo gli occhi, le immagini affluiscono in tutto il loro orrore. Riesco a respirare solo quando mi muovo. Durante la mia ultima visita a Port-au-Prince, mio nipote non la smetteva di parlarmi dello stile. Rifiutavo di rispondere perché credo che tutto si leghi all’atto di scrivere, ovvero si impara a scrivere scrivendo. Ci sono due aspetti fondamentali che non bisogna mai perdere di vista: la musica e il ritmo. Se non hai orecchio, è meglio che tu faccia un altro mestiere. Nessuno può insegnarti a scrivere una frase che suoni bene. Mio nipote insisteva. Voleva un libro di consigli puntuali. «Non un libro che mi scoraggi» precisa scappando alla toilette. Alla fine ho accettato. Il titolo c’era già: «Appunti a uso di un giovane scrittore». So che dare consigli può sembrare presuntuoso ma in trentacinque anni, mi dico, un paio di cosette sulla scrittura da potergli rifilare le avrò pur imparate. Per esempio, conservare quella spontaneità che ne costituisce il vero fascino. Oggigiorno mi sembra tutto decisamente troppo inquadrato. Non si balla abbastanza. Mi piace sentire che dietro al libro c’è qualcuno. Per arrivarci non basta il talento, ci vuole carattere. Dopo qualche notte insonne e una trentina di bottiglie di vino di pessima qualità, il libro era pronto. Nel frattempo il pianeta era travolto da un’ondata di emozione. Alla televisione si parlava solo del sisma di Port-au-Prince. Mio nipote e io discutevamo di come collocare un aggettivo in una frase per ottenere il massimo effetto. Soltanto la scrittura o la lettura possono rendere il mondo circostante più tangibile o cancellarlo. Avevo quindici giorni per rileggere e correggere. Non si deve credere che questi giorni mi aspettassero tranquilli in un angolo del mio studio. Erano piuttosto pieni di impegni. La realtà ti riacciuffa sempre. La mia vita di uomo si divora la mia vita di scrittore. Bene, avevo capito già da un po’ che potevo avere tutto, tranne il tempo. Il tempo per me. Più mi esprimo liberamente e meno mi appartengo. La libertà sprigiona un profumo che attira gli altri. Ti piombano addosso come uno sciame di api per divorarti tutta l’energia. Do un’occhiata all’agenda. Tre viaggi previsti per marzo – siamo nel marzo del 2010 e il terremoto è avvenuto a gennaio. Da qualche tempo, tutte le Ong del mondo si danno un gran daffare in questa città a pezzi. Solo per spostarsi, consumano tutto il carburante disponibile nel paese. Allora ci sediamo e li guardiamo passare. Ho quindici giorni per finire il libro e inviarlo all’editore. In valigia ho: il taccuino e un piccolo computer Toshiba. Viaggio leggero per non perdere tempo all’aeroporto.

Ero stato invitato dall’università della Florida a un convegno sulla letteratura haitiana contemporanea. Non potevo rifiutare dato che, all’indomani del terremoto, avevo dichiarato che la cultura è la sola cosa che Haiti abbia prodotto. Non mi riferivo unicamente alla cultura intellettuale, ma anche a quella che struttura il popolo. Per non diventare un popolo da compatire, dobbiamo continuare a fare quello che sappiamo fare. Piangeremo dopo, quando le cose andranno meglio. Nell’attesa, andiamo avanti. L’albergo non è lontano dall’università in cui mia figlia ha studiato letterature francofone. Guardo di sfuggita la camera, che sembra spaziosa e soleggiata. Siamo nel sud degli Stati Uniti. Disfaccio meccanicamente la valigia, sistemo i vestiti nell’armadio e scopro di aver dimenticato i calzini. È sempre così quando si fa la valigia in fretta e furia. C’è da dire che la casa di famiglia era danneggiata e la maggior parte dei vicini per strada. Questa storia dei calzini dimenticati mi riporta al cataclisma. Mi siedo un attimo sul letto per riprendere fiato. Ho l’impressione di essere spinto da una folla che sussurra parole che non riesco a cogliere. Immagini confuse. Mi alzo barcollando per sistemare sul tavolo tutto l’armamentario: computer, sveglia e taccuino nero. Decido su due piedi di aggiungere, alla fine del libro sullo stile che stavo scrivendo, un breve testo sul sisma o sulla difficoltà di scrivere quando tutto si muove intorno a te. Mi limito ad assecondare una voglia incontenibile come quella di pisciare. Se c’è un consiglio che posso dare a un giovane scrittore, è: «Non cercare il soggetto del tuo libro, sarà lui a trovarti». Peccato che non arrivi sempre nel momento giusto. Adesso c’è un editore ansioso che aspetta un libro sullo stile. Non è il caso di lasciarsi distrarre. Peccato che in questa storia non sempre si faccia quello che si vuole. Un buon soggetto può scatenare un’energia simile alla passione fisica. Non penso ad altro. Ovunque mi trovi, aspetto solo il momento di rimettermi davanti al computer. Non presto alcuna attenzione a ciò che mi viene detto. Declino gli inviti a bere qualcosa. Non vedo più nemmeno le ragazze che nonostante tutto cercano di discutere con me sulle mie influenze letterarie, un argomento abbastanza vasto e vago da lasciare spazio a un garbato flirt. Il terremoto continua a sconvolgere la cattiva coscienza occidentale mentre la mia vita prosegue in parallelo. Il sisma in primo luogo colpisce gli haitiani, poi permette alle organizzazioni internazionali di giustificare le loro spese, e infine dà visibilità a Haiti. Ci sono paesi che come stelle continuano a brillare anche quando sono morti. Mangio solo frutta in camera. Scrivo. Sono in balia delle immagini che ho intravisto nei trentacinque interminabili secondi del sisma. Immagini che ho rifiutato di evocare per i media ma che adesso mi assalgono in questa camera oscura. Scrivo in preda a una febbre inaudita. L’impressione che tutto quello che avevo scritto prima fosse solo la prova generale di questo momento. Così facendo, se la corrente elettrica o l’energia umana non mi abbandoneranno, chiuderò il libro in cinque giorni. Nel frattempo ho cambiato albergo e addirittura continente: sono a Bruxelles, a un’altra fiera del libro. Autori che incontrano lettori: da millenni l’alfabeto controlla le nostre emozioni. Una camera ben illuminata. Sempre la stessa storia. L’impressione di non muoversi mai. Un aereo di carta, una camera, un computer, un taccuino nero pieno di appunti che sembrano segni cabalistici, disegni di quegli dèi vudù che non hanno protetto l’isola, devastata senza sosta da cicloni, inondazioni, dittature, colpi di stato, terremoti. Mia madre mi ha raccontato di aver visto tutto. Per lei, l’unica cosa positiva è che da allora dorme all’aperto. Le sue notti erano calde e senza stelle, oggi sono fresche e stellate. Supina nel giardinetto davanti a casa, conta le stelle, cosa che non faceva più dall’infanzia. Spaccando tutto come un bambino rabbioso e ingiusto, il terremoto ha ripiombato il paese in uno stadio infantile. È tutto da rifare. È la rivoluzione, mi ha detto un uomo inebetito. Cosa aspettiamo a prendere il potere?, continua il suo vicino piuttosto su di giri. Ognuno interpreta la situazione a modo suo. L’uno esaltato, l’altro abbattuto. E io, davanti al tavolino, sotto alla finestra, in una città che non guardo. Non guardo più le città. Lascio che siano loro a guardarmi. Mentre passo, sento: «Era a Port-au-Prince quando c’è stato il terremoto». Come se il mio corpo avesse conservato tracce radioattive e sprigionasse un’energia con cui tutti vogliono mescolarsi. Ero diventato estremamente attraente. Invece di ricordare la morte, facevo pensare a una vita e mezzo. Una sovrabbondanza rara. Da vendere o scambiare. L’impressione che il mio corpo fosse coperto di piccoli granchi. Scintillavo nella notte. Più la mia energia si disperdeva in altri corpi affamati, più diventavo luminoso. Una vita breve brilla di una luce più intensa delle vite iperprotette dal progresso della medicina. La morte haitiana rischiara la notte. Una miriade di stelle che si accendono e si spengono. La gente lascia il televisore acceso per non perdersi neanche un particolare del disastro: trecentomila morti in trentacinque secondi, quando la guerra in Vietnam è costata cinquantamila morti agli americani. Dalla finestra guardo gli alberi tremare leggermente nella notte di Bruxelles. Ma tutto quello che si muove mi riporta laggiù. L’impressione di rivivere tutto insieme, concentrato sulla punta di uno spillo. A questo si unisce un brulicare umano. Devo scegliere chi trattenere per non affogare negli aneddoti. Nessuna morte è aneddotica, a esserlo è la morte stessa. Sempre giovane. Balla o piange a sud della vita. Si balla per la morte di un dittatore, si piange per quella di un amico. Ma di fronte a numeri simili i sentimenti personali svaniscono. Al funerale di mia zia, non conoscevo la metà delle persone presenti in chiesa. Mi hanno spiegato che era gente che assisteva al funerale come se fosse quello dei parenti dispersi. In un caso del genere, la morte ti sorprende ovunque. Non c’è un Gps per la vita. Le persone cadevano come manghi maturi. Un rumore sordo. In mezzo a tutta quella folla, si spera che la morte abbia sorpreso una coppia durante l’orgasmo. La piccola morte. Era necessario sotterrare subito i corpi per scongiurare un’epidemia. Da un’inondazione si scappa, all’annuncio di un ciclone ci si mette al riparo, ma non ci si nasconde per un terremoto. Bisogna uscire. Ti risparmia solo se ti vede. Chi esce allo scoperto ha più possibilità di chi si nasconde. È per questo che i cani, sempre in giro per le strade di Port-au-Prince, senza collare né padrone, hanno avuto più fortuna dei gatti, animali che preferiscono i luoghi chiusi. Gli uccelli sono volati via senza avvertire nessuno. È per questo che sono così malvisti oggi. Questo libro lo scrivo tanto per me quanto per gli altri. E anche per chi non era presente. Ma evito la folla che mi ricorda troppo la condizione umana. Cerco di prendere le persone una per una. Morire in mezzo alla folla è una sensazione strana. Da molto tempo siamo abituati a vedere la morte come un’emozione intima. Spaventa tanto perché l’abbiamo personalizzata troppo. Morendo da soli abbiamo l’impressione di fuggire con un tesoro – un saggio africano ha perfino detto che un vecchio che muore è una biblioteca che brucia. Certo che no, un vecchio che muore è solo un vecchio che muore. E un vecchio è solo un bambino che ha vissuto troppo a lungo. Leggo un po’. Nel cuore della notte capita che mi assalga una gran fame d’alfabeto. Senza aprire gli occhi, tendo la mano per prendere un libro sul comodino. In momenti come quelli, ci vorrebbe il talento di un cieco. Fare tutto di notte. Non so se per i ciechi è sempre notte. Un poeta haitiano ha annunciato un libro dal titolo: I ciechi fanno l’amore a mezzogiorno. Come se la sono cavata durante il terremoto? I ciechi odiano i muri contro cui urtano, il sisma abbatte i muri. Lo spazio libero. Ma il suolo è coperto di macerie, ed è scomodo spostarsi. Un cieco a Port-au-Prince di solito non legge in braille, di solito ha un bastone poco utile, non ha un cane guida, e vive in una di quelle città in cui il traffico non ha regole. Un tassista a cui ho chiesto perché non si fermasse ai semafori mi ha risposto che se si fermasse a ogni semaforo, consumerebbe tutto in carburante. Allora il cieco colto dal terremoto? Resta dov’è. Non è né più né meno intelligente di un altro. Fuggendo possiamo imbatterci in una tegola che ci sgozza o in una sbarra di ferro che ci trafigge. Gli oggetti volano. Quel giorno i televisori hanno ucciso molte persone. La cattiva abitudine di sederci troppo vicino. È mattina, faccio la valigia per precipitarmi alla stazione. Mi chiedo da cosa tento di scappare correndo così. Quale incontrollabile energia mi abita?

Il viaggio da Bruxelles a Parigi dura un’oretta. Ho deciso di usare questo breve lasso di tempo per fare il vuoto. Riposare la mente. Guardare i campi ondeggiare. Questi paesaggi che da un po’ non conoscono terremoti. Tutta questa natura mi sembra molto salda, ma io so che se Atlante muove le spalle tutto precipita nell’orrore. Per un istante speravo di cacciare dalla mente queste immagini di violenza. Un momento di calma che mi spinge verso questo tunnel. C’è un unico modo per trovare pace: far affiorare dall’infanzia più profonda il volto sorridente di mia nonna. Il sonno viene a solleticarmi la nuca. Il treno entra già in stazione e repentino il sorriso di mia nonna fa apparire una parte misteriosa del mio paese abitato da dèi chiassosi e dissoluti. Vengo da un posto in cui la gente sembra conoscere il cammino segreto che conduce all’altra riva in modo indolore. Per gli haitiani, l’aldilà è un luogo dove non si porta il cappello. È il Paese senza cappello. Malraux, in vecchiaia, era andato a Haiti dopo aver visto un cimitero dipinto con colori allegri e aveva avuto l’impressione che, sebbene questo paese conosca la miseria, ignora l’angoscia della morte. In quel libro, Paese senza cappello, ho cercato di seguire la lunga strada che porta a quella barriera che si può superare solo dopo la morte. Queste immagini ancora cariche di mistero si sono susseguite nella mia testa mentre il treno rallentava.

Ho voglia solo di questo breve libro sul sisma, che accetto di scrivere. Finora mi dimenavo come un diavolo. Perché non avevo voglia di rivivere così presto questo incubo. Un amico con cui discutevo del libro mi chiede, a bruciapelo, se non ho scrupoli a scrivere su un argomento del genere e in quel modo. Senza aver letto una riga prevede già come lo scriverò. Ora per farsi un’idea non serve più sapere. Si afferma. Si esprime un’opinione e solo dopo si pensa. Il tale deve scrivere il tal libro. Nel mio caso ha ragione, ma non vale per tutti. Non posso smettere di guardare le cose con ironia. Non sempre è un bene. La morte è un argomento troppo grave perché possa prenderlo sul serio. Sapendo che non le sfuggiremo, in un modo o nell’altro, è meglio burlarsene, anche solo un po’. Un proverbio haitiano dice: «Se saluti l’asino, quello ti dà un calcio, se non lo saluti, quello ti dà un calcio, allora tanto vale non salutarlo». Una maniera per mantenere la propria dignità. La domanda: Perché uno scrittore che era presente quando c’è stato il terremoto deve tacere mentre i giornalisti che non l’hanno vissuto ne parlano in continuazione? Mi hanno perfino chiesto se non mi sentissi in colpa perché ero sopravvissuto quando tante persone sono morte. Non penso che i morti, che spesso sono nostri famigliari, starebbero meglio se morissimo con loro. È ai morti che dobbiamo chiedere della morte: «Come state ora che non siete più con noi nella tempesta della vita?». I morti hanno il vizio di non rispondere alle domande stupide. Non riuscirò mai ad assimilare tutta questa gente morta all’improvviso. Questa folla compatta ancora viva un minuto prima dell’evento. Deve avere un certo effetto sulla sensibilità dei vivi. Non sono il tipo da mettermi a piangere in pubblico. In ogni caso i grandi eventi non mi fanno piangere. Piango solo per le sciocchezze: un fiore scompigliato dal vento. Mi sistemo nella nuova camera, a Parigi, metto una sedia davanti alla porta e rimango seduto a lungo. Così voglio dare le spalle al frastuono del mondo. Ho bisogno di silenzio. Ritrovare il silenzio sopraggiunto dopo il terremoto. Rivedere le bocche aperte che non emettevano alcun suono. Stamattina sono in un piccolo albergo che risale al 1890. A Parigi tutto risale a un altro secolo. Non si è mosso niente. L’esatto contrario di Port-au-Prince, dove tutto si muove di continuo. Ora devo annunciare al mio editore che non riceverà il libro che si aspettava, quello sui consigli a un giovane scrittore. Ma un altro, in cui un fenomeno naturale ha sconvolto la mia sensibilità e, di conseguenza, la mia scrittura. È chiaro che cerco disperatamente di rimanere me stesso, l’uomo che ero prima del 12 gennaio 2010, ma devo ammettere che la situazione mi sfugge di mano. I pensieri girano a vuoto. Per perorare la mia causa con l’editore, aggiungo che un libro ne nasconde sempre un altro. Non più tardi di due settimane fa, rifiutavo le offerte degli editori di tutto il mondo che mi chiedevano di raccontare il mio sisma. Già «il mio sisma» non mi sembrava appropriato. Solo un morto può rivendicare la catastrofe in questi termini. Adesso lavoro sugli appunti presi a Port-au-Prince durante gli eventi. Non è propriamente un libro. A meno che la definizione di libro non sia cambiata e non siamo al punto di chiederci: Cosa resta da fare alla letteratura? È la mia intimità tradotta in parole. Un’intimità che condivido con milioni di persone. Mi faccio portare un tè, come Balzac. Mi tolgo la camicia. Eccomi di nuovo solo con “questa cosa”. È così che abbiamo chiamato il terremoto nei primi istanti, prima di deciderci a chiamarlo “gudugudù”. Mentre mi trovo nella splendida città di Parigi e mi credo Balzac perché scrivo bevendo tè, la gente a Port-au-Prince lotta per il cibo e guarda il cielo con apprensione. Non è un buon motivo per deprimersi. Anzi, devo festeggiare la vita per rispetto di coloro che sono morti. Il portiere mi porta una cesta di frutta. Nella camera accanto una coppia fa l’amore. È su questa musica che finisco il libro.

 

© Dany Laferrière, 2015
traduzione italiana di Cinzia Poli
© 66thand2nd / nottetempo, 2015

 

 

 

 

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