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Come ombra che declina di Antonio Muñoz Molina. Un estratto

Come scritto nella recensione di Emanuele Trevi sulla Lettura, Come ombra che declina di Antonio Muñoz Molina è «un romanzo storico, e insieme un libro di memorie, la cronaca di un lungo e incerto apprendistato artistico, un omaggio a Lisbona, una riflessione incalzante e necessaria sul mestiere di scrivere romanzi».

L’autore spagnolo indaga la vicenda di James Earl Ray, responsabile dell’omicidio del leader della lotta per i diritti civili Martin Luther King Jr (avvenuto proprio nel mese di aprile di cinquant’anni fa), soffermandosi in particolare sui dieci giorni che Ray trascorse a Lisbona nel tentativo di far perdere le proprie tracce all’FBI.

Pubblichiamo un estratto del libro, le prime tre pagine, tradotto da Carlo Alberto Montalto. Buona lettura!

 

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La paura mi ha risvegliato nella coscienza di un altro; la paura e l’intossicazione da letture e la ricerca. È stato come aprire gli occhi in una stanza diversa da quella in cui mi ero addormentato. Mi sono risvegliato e il panico del sogno era ancora lì. Avevo commesso un delitto oppure mi avevano inseguito e poi condannato pur essendo innocente. Qualcuno mi puntava contro una pistola e io ero paralizzato, in- capace di difendermi o scappare. Prima che la coscienza si dissolva del tutto, il romanziere segreto che ognuno ha dentro di sé già inizia a ordire le sue storie e le sue scene. La stanza buia e concava aveva il soffitto basso come una grotta o una cantina o l’interno di un cranio in cui alberga il cervello di qualcuno che non sono io, una coscienza esasperata da ore e ore di letture o divagazioni solitarie, con tutti i suoi ricordi, le caratteristiche fisiche, la vita in sequenze di immagini, la propensione alle tachicardie, a credere di essere affetto da malattie mortali, un cancro, un’angina pectoris, l’abitudine di nascondersi e fuggire.

Mi sono risvegliato e per un attimo non ricordavo dove fossi, ero come lui o forse ero lui dato che stavo facendo un sogno più suo che mio. Mi sconcertava l’incapacità di non riconoscere la camera in cui neanche due ore prima mi ero addormentato; non avevo idea di dove fossero il letto, la finestra e gli altri mobili, né della mia stessa posizione in quello spazio di colpo sconosciuto; faticavo perfino a ricordare in che città mi trovassi. Cosa che a lui doveva essere capitata spesso, dopo essersi addormentato e risvegliato in così tanti posti nell’anno e più di latitanza, tredici mesi e tre settimane per la precisione, in cinque paesi, una quindicina di città, due continenti, per non parlare delle notti passate nei motel sul ciglio della strada, o raggomitolato come un animale contro un albero, o sotto un ponte, o sul sedile posteriore della sua auto, o in un autobus che puzzava di plastica e sigarette posteggiato nel parcheggio sotterraneo di una stazione, alle tre del mattino; o di quella notte in preda all’agitazione, la prima trascorsa a bordo di un aereo, la prima volta che ne prendeva uno, paralizzato dalla paura, mentre dal finestrino ovale guardava in basso, come nel fondo di un abisso, verso la superficie dell’oceano che brillava come inchiostro fresco al chiaro di luna.

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Il sogno da cui mi sono risvegliato poteva essere suo, anche se lui non vi compariva. Dal mio arrivo a Lisbona ho passato ore e ore, giorni interi, immerso nella sua vita. Bastano pochi secondi su Internet per accedere a file contenenti informazioni su quasi tutto quello che ha fatto, i posti in cui è stato, i reati commessi, le carceri dove l’hanno rinchiuso, perfino i nomi delle donne con cui è andato a letto o ha bevuto qualcosa al bancone di un bar. So quali libri e riviste leggeva e conosco la marca del pacchetto di cracker lasciato a metà nella camera di una pensione a Atlanta, dove non risultava registrato perché il gestore era talmente ubriaco da scordarsi di chiedergli il nome. Pagine fotocopiate e scansionate di vecchi documenti forniscono la lista dei vestiti portati in una lavanderia di Atlanta il primo aprile 1968 e ritirati la mattina del 5 aprile, oppure il rapporto della Scientifica sulla traiettoria del proiettile sparato la sera prima, giorno 4, a Memphis, dal bagno di una pensione, posizionando la canna di un Remington 760 sul davanzale, o ancora le dichiarazioni del chirurgo plastico che gli ha rifatto il naso a Los Angeles, o la copia di un’impronta digitale su un tagliando di vendita per corrispondenza preso da una rivista di fotografia.

Anche la più clandestina delle vite lascia dietro sé una traccia indelebile. A quei tempi le pubblicità sulle riviste contenevano spesso dei moduli d’ordine, con apposite caselle in cui scrivere il proprio nome e indirizzo, e linee punteggiate su cui firmare. La sconfinatezza della realtà genera sconcerto e insonnia in egual misura. È sconcertante quanto si possa apprendere su una persona di cui in fondo non sappiamo niente, perché non ha mai detto ciò che più contava: un buco nero, uno spazio bianco; una foto segnaletica; lo schizzo di un identikit realizzato sulla base di testimonianze frammentarie e ricordi vaghi. Si nutriva di caffè solubile riscaldato con una lampada sommergibile, di latte in polvere, di fagioli in scatola, di patatine fritte intinte nella senape o nel condimento dell’insalata Kraft. Frequentava le tavole calde più a buon mercato, mangiava hamburger con extra di cipolle, bacon, ketchup e formaggio e ingurgitava manciate di patatine fritte. Qualcuno ricordava con certezza che fosse mancino, mentre altri erano sicuri di averlo visto usare sempre la mano destra per firmare e fumare. In alcune descrizioni della polizia ha i capelli castano chiaro, in altre neri e brizzolati sulle tempie. Aveva una piccola cicatrice in mezzo alla fronte e un’altra sul palmo di una mano. Lo ricordavano che fumava, con la sigaretta nella mano destra sul cui anulare spiccava una pietra verde scuro incastonata nell’oro. Eppure non aveva mai fumato né portato anelli. Un anello poteva essere uno di quei dettagli che facilitano il ricordo, rendendo possibile un riconoscimento. Non si era mai fatto tatuaggi.

Sono rimasto in piedi fino a tardi per cercare le sue tracce nei meandri della memoria insonne di Internet e quando ho spento la luce ero così saturo che mi bruciavano gli occhi, nella mia mente ritornavano date, nomi, fatti insignificanti dotati della consistenza chitinosa della realtà, qualcosa che nessuno può inventare di sana pianta. In prigione, per mantenersi in forma, aveva imparato a camminare sulle mani e a eseguire complesse posizioni yoga in spazi angusti. Saliva e scendeva di peso con estrema facilità. Si fotografava di continuo con una Polaroid che tenne con sé sino alla fine: con occhiali da sole e senza, con occhiali da vista, sempre di fianco, di scorcio, mai di profilo, perché il suo profilo era troppo caratteristico, perfino dopo l’operazione al naso, né tantomeno di fronte perché non si notassero le orecchie a sventola. Spediva foto sempre diverse alle agenzie di incontri, pensando così di confondere le autorità quando sarebbe cominciata l’inevitabile caccia all’uomo. In un istituto alberghiero di Los Angeles aveva imparato a miscelare centoventi tipi di cocktail. Per vari mesi aveva seguito assiduamente un corso di fabbro per corrispondenza organizzato da una scuola del New Jersey. Tra le sue carte avevano trovato un opuscolo su tutti i vantaggi e le prospettive del mestiere del fabbro. All’età di nove o dieci anni faceva incubi spaventosi e si svegliava ogni notte, ancora più terrorizzato dalle sue stesse urla. Sognava di essere diventato cieco. Cercava di svegliarsi e quando riapriva gli occhi non vedeva nulla perché era già precipitato in un altro sogno di cecità. Era così spaventato all’idea di riaddormentarsi e ripiombare in quegli incubi che si sforzava di restare sveglio fino al sorgere del sole. Nel buio della stanza avrà sentito russare suo padre e sua madre, sbronzi entrambi e buttati uno addosso all’altro come due fagotti su un materasso spoglio, coperti da stracci e vecchi giacconi. Sopra dei pagliericci gettati sulle assi semidivelte del pavimento dormivano ammassati i suoi fratelli, come una grande cucciolata, infestati da pidocchi e cimici, affamati, stretti gli uni agli altri contro il freddo dell’inverno, nell’unica stanza della casa, respirando il fumo tossico di una vecchia stufa a legna.

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