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Cavalli di razza di John Jeremiah Sullivan. Un estratto

Acclamato dalla critica statunitense ― «si legge come Moby Dick curato da F. Scott Fitzgerald» ― Cavalli di razza di John Jeremiah Sullivan (Americani, Sellerio 2014) è un memoir indimenticabile che racconta il sofferto rapporto tra un padre e un figlio, tra alcolsimo e corse dei cavalli. Pubblichiamo un estratto del libro, le prime tre pagine, tradotto da Gabriella Tonoli. Il volume uscirà il 6 settembre in tutte le librerie. Buona lettura!

sullivan lancio

IL RAGAZZO
Successe nel mese di maggio, tre anni fa. Ero accanto a un letto di ospedale a Columbus, in Ohio, dove mio padre si stava riprenden­do da un’operazione di quintuplo bypass, divenuta poi di sestuplo quando il chirurgo lo aveva aperto e aveva capito le condizioni in cui versava il cuore. Il suo viso, il viso di mio padre, era pallido. Erano anni che non lo vedevo così magro. In grembo teneva un or­sacchiotto che gli avevano prestato le infermiere: gli avevano detto di abbracciarlo ogni volta che si alzava o si sedeva, per evitare che gli tirassero i punti sul petto. Entrando mi congratulai per l’orsac­chiotto, e lui mi rifilò uno di quei suoi sguardi con gli occhi al cie­lo e la bocca spalancata. Era un’espressione che assumeva in ogni tipo di situazione, ma che significava sempre la stessa cosa: Ma ti pare possibile?
Eravamo al Riverside Methodist Hospital (il fiume in questione era l’Olentangy): la mia famiglia aveva una bella serie di preceden­ti in quello ospedale, o almeno li avevamo io e mio padre. Al River­side ero stato portato d’urgenza all’età di dodici anni da una partita di football, con una frattura a tibia e perone della gamba destra. Era la prima volta in tutta la stagione che ricevevo palla dal quarter­back. Quando avevo sentito il fischietto mi ero tirato su a sedere, in mezzo al campo, e avevo visto le dita del piede rivolte esattamente a 180 gradi rispetto al punto in cui avrebbero dovuto essere, così ero entrato in un leggero stato di shock, lì sull’erba, all’altezza della linea delle cinquanta yard, e mi ero sdraiato di nuovo a guardare  le nuvole. Solo il viso dell’arbitro mi ostruiva la vista. Continuava a dire: «Modera il linguaggio», che sembrava comico, perché per quanto ne sapevo non avevo aperto bocca.
Mi pare di ricordare, o è possibile che l’abbia immaginato, che a quel punto mio padre entrò in campo con quella calma estrema che mostrava nelle situazioni di emergenza, mi posò una mano sul braccio e disse qualcosa per incoraggiarmi, pur essendo di sicuro scioccato quanto me dalla posizione del mio piede, e forse anche un po’ dispiaciuto: era un giornalista sportivo professionista che a vent’anni era stato un atleta completo di ottimo livello e in segui­to aveva allenato varie squadre giovanili, perciò sapeva bene che non avrei mai dovuto mettere piede su un campo. Il solo ruolo che potevo ricoprire era il running back, in effetti, perché quando il coach mi aveva provato in altre posizioni, avevo mostrato comun­que la tendenza a stare alla larga dagli altri giocatori. La mia unica risorsa era la velocità; avevo ancora un fisico pre-adolescente da corridore ed ero il più veloce della squadra. Il coach aveva notato che in genere negli scatti arrivavo primo, così aveva intravisto una possibilità. Ma ciò che sfuggiva a entrambi era che il running back non deve soltanto superare i difensori in velocità – come succede quando una giocata è eseguita alla perfezione – ma spesso deve far­si strada buttando giù gli avversari. Io non ce l’avrei mai fatta.
A volerla dire tutta, il coach aveva ben altro di cui preoccuparsi. Alla nostra squadra, che non aveva un nome, mancavano talento e «grinta». In auto, di ritorno a casa dalle nostre prime due partite, si era capito che eravamo stati patetici dal modo in cui mio padre aveva evitato ogni accenno a quanto era successo in campo – ma non patetici alla Bad News Bears, perché non ce l’avevamo mai mes­sa tutta, non avevamo mai fatto cagnara, mai «voluto la vittoria». Agli allenamenti molti giocatori mostravano una tale indifferenza nei confronti delle istruzioni del coach che pareva fossero lì perché obbligati a un lavoro socialmente utile.
Il nostro quarterback titolare era Kyle, il figlio del coach. Quan­do le cose non andavano come voleva Kyle, vale a dire quando non era in campo, perché sostituito dalla riserva, che era in gamba, o quando era in campo e lanciava malissimo, si metteva a piangere. Le sue però non erano lacrime da bambino – il che mi avrebbe forse mosso a un po’ di pietà per lui, al pensiero di come se la passava a casa con il coach –, erano lacrime più amare, troppo amare per un dodicenne. Kyle allora si comportava in modo a dir poco curioso: scagliava a terra il casco e si metteva a correre per una cinquantina di metri fino alla macchina del padre, una Cadillac Eldorado beige, sempre parcheggiata nel campo da calcio accanto al nostro. Entra­va, accendeva il motore, abbassava tutti e quattro i finestrini e – sempre piangendo, credo, magari persino singhiozzando visto che era da solo – metteva gli Aerosmith a un volume insostenibile per l’impianto dell’Eldorado. Gli speaker gracchiavano. Il coach finge­va di ignorare quella pagliacciata per una decina di minuti, urlando per farsi sentire da noi, e lasciando intendere che nel football sono cose che capitano. Ma nel giro di poco Kyle, esasperato, si attacca­va al clacson, prima dando qualche colpetto isolato, poi tenendolo direttamente premuto. Quindi tirava fuori dal finestrino del con­ducente il pugno con il dito medio alzato. A quel punto il coach era costretto a lasciare il campo e con grande lentezza si avvicinava alla macchina. Noi rimanevano lì fermi, mentre lui parlava con Kyle. Presto il motore si spegneva. Quando padre e figlio tornavano, gli allenamenti riprendevano, con Kyle come quarterback.
All’epoca, il siparietto non mi colpiva più di tanto. Eravamo nuovi di Columbus, ci eravamo appena trasferiti da Louisville (la nostra casa era al di là del fiume, sui colli sopra New Albany, India­na), e io avevo bisogno di amici. Così guardavo la scena con una sorta di accettazione muta, animalesca, intuendo che non avrebbe portato a nulla di buono. Poi di colpo era arrivato quel sabato, Kyle mi aveva passato la palla e un attimo dopo avevo sentito qualcosa di rapido e violento, e mi ero trovato a osservare un ragazzone alto e forzuto schizzare via da me come se si fosse svegliato accanto a un serpente a sonagli. Ho ancora negli occhi il suo sguardo fisso sulla mia gamba. Era nero, con un’acconciatura afro che balzava fuori ogni volta che si toglieva il casco. Sembrava sinceramente confuso dalla facilità con la quale le mie ossa si erano spezzate. Mentre i paramedici mi stavano mettendo sulla barella, venne da me e mi disse che gli dispiaceva.

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